Alberto Pian

UNA LEZIONE DI ETICA SOCIALE, CHE RIBALTA GLI STEREOTIPI E I DISVALORI DEL CAPITALISMO. KEN LOACH, IL MIO AMICO ERIC

Il film di Ken Loah, Il mio amico Eric, veicola un messaggio rivoluzionario, basato sulla forza del collettivo e sull’orgoglio di essere “postini” ( o qualsiasi altro gruppo di lavoratori). Non l’eroe borghese che salva il mondo da solo, ma la forza del gruppo sociale che ribalta i disvalori del capitalismo, ribaltando anche gli stereotipi che porta con sè.

Questo articolo fa parte del libro Visto in sala, lezioni di storytelling attraverso il cinema, 2016 - 2022. Qui con lo sconto del 25%
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Il rovesciamento dello stereotipo

Ecco un esempio concreto della dialettica che intercorre fra messaggio istituzionale e non istituzionale o, se preferite, fra stereotipo, canone e innovazione.

Si tratta di questo.

A un certo punto due autobus di tifosi del Manchester si fermano davanti a una villa, i tifosi scendono, aprono i bagagliai e afferrano mazze e bastoni. Fino a questo punto siamo nel campo, stereotipato, di una tifoseria violenta che sembra intraprendere una delle sue solite azioni alle quali siamo purtroppo abituati.

Invece, queste decine di tifosi, indossano la maschera del loro idolo Cantona, un ex giocatore del Machester, per intimidire (con una violenza benevola, assolutamente priva di forza bruta), il bullo – gangster – mafioso, che sta molestando una brava famiglia. Il bullo viene messo in ridicolo, affinché “perda la faccia” e uno dei protagonisti dichiara:

“Lascia stare quella famiglia, non la farai franca, ti troveremo anche in capo al mondo perché noi non siamo persone qualsiasi. Noi siamo postini!”

con tutto l’orgoglio di un operaio fiero del proprio lavoro di fronte a un soggetto violento, antisociale e senza alcun ruolo produttivo.

Contro i disvalori di questo soggetto e della sua banda, viene affermata tutta la forza di valori sani: lo svolgere una professione, per quanto modesta; il rifiuto della violenza, trasformata in parodia; l’esprimere un pieno senso di solidarietà collettiva e di comunione di gruppo.

Anche qui siamo di fronte a un rovesciamento che avviene sotto il segno dell’ironia.

Che cosa ci si può aspettare da un gruppo di tifosi armati di mazze?

E invece no, una situazione apparentemente stereotipata, istituzionale, codificata, è impiegata dal regista per veicolare dei valori, per denunciare esattamente quello che tutti si potrebbero attendere.

Perché avviene questo rovesciamento?

Non per la messa a punto, da parte di qualche esperto, di  trucchi narrativi o comunicativi. Si tratta di una scelta di campo, di classe sociale, di valori. Cioè di contenuti.

L’eroe del film, che inizialmente ricalca i classici stereotipi dell’eroe borghese solitario, che porta il peso della vita sulle sue spalle, in lotta contro tutti (il solito cliché: quello del solitario cowboy western, dell’avvocato di Manhattan, dell’agente della CIA, del malinconico soggetto in crisi, ma comunque “solo” con la proprie ragioni), si trasforma perché scopre che questo modello borghese, nella realtà concreta, è un mito falso e perdente.

Così esce da un mutismo e da una chiusura in se stesso, matrici tipiche dell’eroe piccolo – borghese, per parlare con gli amici (i suoi colleghi di lavoro).

È con loro, rompendo la propria solitudine che scaturisce da un individualismo borghese, che trova la necessaria forza di reagire.

È esattamente il contrario di quanto il cinema mondiale ci propone.

L’uomo è forse una specie di Robinson che deve “farsi da sé”? La solitudine è una condizione specifica della natura umana e quindi il soggetto si deve arrangiare con se stesso? Niente affatto, ci dice Ken Loach: è la società borghese che ci spinge verso questi falsi miti. La vera forza e la vera alternativa si trovano nel collettivo, nella massa, nel popolo, innanzitutto nel proprio luogo di lavoro.

È da lì che parte sempre tutto. Solo la working class è anche portatrice di un’alternativa, di una prospettiva diversa.

Ciò che conta, parafrasando Eric Cantona (che nel film appare come una sorta di amico immaginario del protagonista), non è il bel goal borghese che conta, ma il giusto passaggio proletario.  E infatti tutto parte dai postini britannici. Proprio quando in Gran Bretagna le poste sono falcidiate da un piano di privatizzazioni* fondato sui principi del libero mercato e di un individualismo perfettamente adeguato, il film mette i postini al centro dell’attenzione: non il mercato capitalista con i suoi disvalori spacciati per miti e i suoi falsi eroi solitari, ma una classe operaia fatta di uomini in carne e ossa, può esprimere i valori e le azioni con i quali sarà possibile cambiare il mondo.

Proprio una gran bella – e rara – lezione!


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