Il prigioniero del Caucaso (Кавказский пленник), Aleksandr Puškin, 1821. Il racconto parla di una storia d’amore impossibile fra un russo prigionero dei Circassi, fra le montagne dal Caucaso e una delle loro ragazze che esprime forti sentimenti nei suoi confronti. Qui però non ci interessa questa storia d’amore, anche se è romantica, ricca di sentimenti ed è anche attuale, nel contesto di popolazioni fra loro rivali. Quello che mi interessa è il rapporto che si genera fra i personaggi e il contesto. Puskin mette in risalto come il contesto naturale del Caucaso si fonda in un’unica cosa con i Circassi, popolazione nativa caucasica, combattenti che vivono in modo naturale portando avanti le loro tradizioni. I Circassi e il paesaggio forte e selvaggio diventano un solo soggetto. Non può esistere paesaggio naturale senza i Circassi e i loro costumi e viceversa, non è concepibile l’esistenza di questa popolazione in un paesaggio differente da quello descritto da Puskin. Il prigioniero russo sembra affascinato da questa integrazione naturale che giustifica completamente e stabilisce le radici di una popolazione, quella stessa popolazione che lo ha catturato e che lui ammira proprio nel contesto del paesaggio caucasico intorno al monte Elbrus.
Il brano che riporto qui sotto è integrale e senza interruzioni. Attraverso i miei commenti voglio mostrarvi l’articolazione di questa fusione fra umanità e natura, soggetto e contesto.
Resistere a un sentimento così raro e evidente, nella sua condizione, è difficile. Egli vive una solitudine completa che potrebbe essere rischiarata dall’offerta di questa giovane donna. E invece il prigioniero rifiuta l’affetto della ragazza.
Il prigioniero passa le sue giornate sulle montagne, incatenato presso alle greggi. L'ombra di una scura caverna lo protegge dagli ardori dell'estate. Quando il corno della luna argentea risplende sulla tenebrosa montagna, la giovane circassa, per un sentiero ombroso, porta al prigioniero del vino, del kumis, del miele profumato, del riso bianco come la neve, divide con lui la segreta cena, su di lui posa il suo tenero sguardo, unendo alle parole che egli non comprende, il linguaggio degli occhi e dei gesti. Gli canta le canzoni della montagna, delle canzoni della felice Georgia, dando all'impaziente memoria di lui la lingua straniera. Per la prima volta ella amava con la sua anima fanciullesca, per la prima volta conosceva la felicità. Ma il russo da molto tempo aveva dimenticato la dolcezza della passione giovanile, non poteva corrispondere di cuore a quell’amore di fanciulla così sincero. Forse egli temeva di ricordare un sogno d'amore dimenticato. Ma la nostra gioventù non svanisce a un tratto, i nostri entusiasmi non ci abbandonano a un tratto, e più volte abbracciamo una gioia inattesa. Però voi, vive sensazioni di un primo amore che comincia, prima fiamma di ebrezza, voi non ritornate mai più. Pareva che il prigioniero disperato si abituasse alla sua triste vita. Egli nascondeva nel profondo dell'anima l'angoscia della perduta libertà, il fuoco della ribellione.
Notate che il sentimento si esprime con un linguaggio diverso da quello della lingua, supera le barriere linguistiche e ancora di più quelle della inimicizia fra i popoli. Nella ragazza si manifesta una componente idealizzata, chiaramente, anche se qui è solo accennata. Puskin dice: «ella amava con la sua anima fanciullesca, per la prima volta conosceva la felicità.» Dal canto suo il prigioniero ha superato la fase «fanciullesca della sua vita», dice sempre Puskin e perciò non si abbandona al sentimento della ragazza. Tuttavia il motivo non è questo. Non si tratta di un gioco d’amore al quale lasciarsi o no andare, non è questione di una maturità acqiosita dal prigioniero per la sua età e situazione. Egli avrebbe potuto alleviare la propria condizione grazie alla giovane ragazza e invece il prigioniero è attirato da qualcosa d’altro.
Da che cosa?
Qui ha inizio una descrizione che unisce la natura e i Circassi in un’unica entità indistinguibile che è precisamente ciò che affascina il prigioniero russo.
Si trascinava fra le tristi rocce nelle fredde ore mattutine, fissava lo sguardo immobile sulle masse lontane delle montagne, grigie, rosse, azzurre. Quadri grandiosi, eterni troni di nevi sembravano ai suoi occhi quelle cime nella catena delle immobili nuvole, e in quel cerchio di colossi a due teste, splendenti nelle corone di ghiaccio, l'Elbrus enorme, maestoso, biancheggiava sul cielo turchino. Quando il tuono rumoreggiava con un sordo grido, annunziatore della tempesta, spesso il prigioniero se n'estava immobile sulla montagna innanzi alla hul. Ai suoi piedi fumavano le nuvole, nella steppa la polvere volava in turbine. Il cervo, sfaventato, stava a un rifugio fra le rocce, le acule si innalzavano sui precipizi, empiendo l’aria dei loro stridi, il galopo dei cavalli, il muggio delle gregge si mischiavano alla voce della tempesta, e a un tratto, sui prati, veniva giù pioggia e grandine attraverso le nuvole e i lampi, torrenti impetuosi si creavano un passaggio, rotolando con fracasso pietre centenarie, e il prigioniero, sulle cime delle montagne, solo, dietro le nuvole e i tuoni, aspettava il ritorno del sole, e inaccessibile alla minaccia, ascoltava con un certo piacere l'urlo impotente della tempesta.
Nel passo che abbiamo appena letto viene descritta la grandezza naturale e affascinante del territorio, la sua forza dirompente, la sua libertà di esprimersi attraverso i suoi elementi, ma anche attraverso i versi e i movimenti degli animali. Il prigionero assiste a uno spettacolo grandioso, immenso. È parte di un teatro in cui è spettatore.
Ma la forza di questa natura sarebbe incompleta senza la presenza umana di una popolazione che sembra essere stata forgiata da quegli elementi naturali che compongono lo spettacolo. Infatti Puskin continua il racconto passando dalla natura all’uomo, dalla forza del paesaggio a quella di chi lo vive e ne è parte costitutiva, cioè i Circassi.
Ma tutta l'attenzione dell'europeo era accattivata da quella sorprendente popolazione. Su quelle alture il prigioniero osservava la loro fede, i loro costumi, la loro educazione, amava la loro semplice vita, la loro ospitalità, la sede della lotta, la rapidità dei loro liberi movimenti, la leggerezza dei piedi, la forza delle mani. Guardava per ore intere come l'agile circasso, per l'ampia steppa, su per i monti, col suo cappello a punta, la sua burka nera, piegandosi sull’arcione, puntando sulla staffa il suo piede ben fatto, volava in libertà sul suo cavallo corridore, abituandosi per tempo alla guerra. Egli era preso dalla bellezza del loro semplice vestimento guerriero.
Sembra di vedere il circasso a cavallo correre per la steppa mostrando una figura perfettamente adeguata al paesaggio, una figura, come dice Puskin nel brano qui sotto, caratterizzata dalla «bellezza». La bellezza è determinata dall’abbigliamento della tradizione e poi da una nuova funzione, quella con il suo cavallo. Natura circostante, abbigliamento, posa guerresca e cavallo, sono una triade indissolubile che fonde il personaggio nel contesto e viceversa. Allora, sintetizza Puskin, «tutto gli è strada».
Il circasso è coperto di armi, le armi sono il suo orgoglio e la sua gioia, c'è sempre una maglia di ferro, un archibugio, una faretra, un arco, un pugnale, un nodo scorsoio e una sciabola, costante compagna delle sue fatiche e del suo ozio. Niente gli pesa, niente tintinna. A piedi, a cavallo è sempre così, il suo aspetto è sempre quello dell'uomo che non si può vincere né piegare. La minaccia, la ricchezza dei cosacchi, incuranti di ogni altra cosa, è il focoso cavallo prodotto degli stalloni di montagna, compagno sicuro, paziente. L'astuto brigante si nasconde con esso nelle caverne, fra l'erba folta, e a un tratto, con la rapida freccia, mira il viaggiatore che si avvicina. In un istante un colpo sicuro abbatte la preda, e già egli la trascina col nodo scorsoio fra le gole delle montagne. Il cavallo galoppa senza freno, pieno di focoso ardire. Tutto gli è strada, pantani, boschi, cespugli, rocce e burroni, una traccia di sangue gli corre appresso. Nella solitudine risuona il suo galoppo, un grigio torrente gli rugisce davanti. Esso si precipita nel gorgo sfumante, e il viaggiatore, gettato nel fondo, inghiottisce l'onda torbida.
Impotente implora la morte e se la vede davanti. Ma l'intrepido cavallo, come una freccia, lo porta sulla sfonda coperta di schiuma. A volte, attaccandosi a un tronco d’albero uncinato che la bufera ha trascinato nel fiume, quando l'ombra di una notte senza luna giace come un drappo sulle colline, il circasso posa ai piedi di un albero o appendia i suoi rami la sua armatura guerresca, lo scudo, la burca, la maglia di ferro, l'arco, l’elmo, e poi si getta nelle rapide onde, instancabile e silenzioso. La notte è profonda, il fiume spumeggia, la corrente impetuosa lo trasporta lontano, sulle rive solitarie dove i cosacchi, chini sulle loro lance, in cima a qualche altura, guardano la scura corsa del fiume, e davanti a loro, nella nera notte, luccicano le armi del bandito. A che pensi, cosacco? Rammenti le passate battaglie, il tuo bivacco sul campo di morte, i cantici di preghiera dei soldati e la tua terra nativa? Insidioso sogno. Addio, libere tappe, case dei padri e pacifico Don, guerre e belle fanciulle. La scosa nemica ha ammarrato alla riva, la freccia esce dalla faretra, fischia, e il cosacco cade dall’altura insanguinata.
Anche in questo brano si ripropone l’unità di forza e bellezza guerriera con la forza e la bellezza della natura di cui, in questo caso, ne fa le spese un cosacco. Ma, esattamente come la natura scatena i suoi elementi in quel contesto di montagne e steppa del Caucaso, e poi offre quiete e riposo, pace e tranquillità, anche il circasso non è solo combattimento, azione e velocità, ma ospitalità e quiete. E così l’ospite non deve temere nulla in casa di un circasso.
Ma quando il circasso siede nell'abituro paterno, con la tranquilla famiglia, mentre piove di fuori e i carboni accesi covano sotto la cenere, e il viaggiatore stanco smonta dal fedele cavallo dopo essersi attardato per le solitarie montagne, entra e si siede timidamente presso il fuoco, allora il padrone di casa, benevolo, si alza, dando cordialmente il benvenuto all'ospite, e gli offre in una coppa il profumato cechir. Sotto il mantello ancora umido, nella sacla affumicata, il viaggiatore gode un tranquillo sonno, e la mattina lascia il tetto ospitale dove ha passato la notte.
Il prigioniero, che da un lato è affascinato da questa popolazione così «integra» nel suo contesto, osserva i giochi che si trasformano in violenza durante la loro ricorrenza nazionale, le sfide crudeli e «gloriose» come qualcosa che non gli appartiene più. Egli pensa al tempo passato, cioè alla giovinezza ma, secondo me, la sua nostalgia e tristezza non sono il prodotto degli anni che passano, ma della vitalità di un popolo che è tutt’uno con il contesto naturale e animale dal quale esprime la sua bellezza. Una caratteristica che il russo – che Puskin, forse non a caso, chiama «europeo» – non ha mai conosciuto, anche se ha partecipato a tornei e sfide che hanno messo in gioco in gioco la sua stessa vita. Questa assimilazione dell’umanità e del suo contesto è una sorta di miscela esplosiva che cattura tutta l’attenzione e il rimpianto del prigioniero. Non il rimpianto per ciò che era e ha avuto ma per quello che non è mai stato.
Un tempo i giovani si riunivano in folla per festeggiare il Bayran, i giochi seguivano i giochi, ora, vuotando un'intera faretra, perseguitavano con le alate frecce le aquile fra le nuvole, ora, dall'altezza delle ripide colline, a un dato segnale, in file impazienti, precipitavano giù, rasentando la terra come caini, nascondendosi in un turbine di polvere, e correndo col calpestio di una turba amichevole. Ma la pace monotona è noiosa ai cuori nati per la guerra, e i giochi del libero ozio spesso si mutano in giochi tumultuosi e crudeli. Non di rado le sciabole luccicano nel folle schiamazzo dei banchetti, e volano nella polvere le teste degli schiavi, e i ragazzi applaudono allegramente. Ma il russo guardava con indifferenza questi divertimenti cruenti. Egli aveva amato un tempo le tenzioni gloriose, e ardeva della sete della tomba. Vincolato a un onore implacabile, spesso egli aveva veduto prossima la sua fine. Fermo, freddo, aveva incontrato nei duelli il piombo omicidia. Forse immerso nei suoi pensieri, egli ricordava quel tempo nel quale, circondato dagli amici, egli banchettava rumorosamente con loro. Rimpiangeva egli i giorni passati.
Nota sull’Epilogo del racconto, Circassi, Puskin, la narrazione
Il popolo circasso è stato oggetto di svariate persecuzioni e di un vero e proprio genocidio. Il nome è stato attribuito dai turchi (çerkes), a un insieme di popolazioni unite da lingua e tradizioni. Quindi quella dei Circassi è un popolo formato da diverse componenti. L’occupazione del caucaso da parte de’Impero Russo iniziò nel 1817 (Guerre del Caucaso 1817 – 1864) e andò avanti a lungo. Infine una vera e propria operazione di pulizia etnica fu scatenata da Alessandro II dal 1862. Oltre un milione di circassi furono sterminati con la complicità dell’Impero Ottomano, i villaggi distrutti, i superstiti deportati (oggi circa 700.000 circassi viono in Turchia), dando il via alla colonizzazione e all’insediamento della popolazione russa in quei territori.
Alexandr Puskin era stato inviato in esilio nel sud della Russia nel 1820 (fino al 1826), e da lì aveva intrapreso un viaggio nel Caucaso. Ha scritto questo racconto nel 1821, quindi la guerra caucasica era già iniziata da quattro anni, e dato che questo racconto esprime una profonda conoscenza dei Circassi e un’ammirazione nei loro confronti – che custodiscono un prigioniero russo – possiamo considerare il testo di Puskin come una sorta di sguardo indipendente e libero sui popoli, sulla loro storia e tradizione.
Secondo me questo è l’asse portante della storia.
Nell’Epilogo Puskin parla dell’esercito russo che affronta in combattimento i Circassi che si difendono e parla del valore dell’esercito imperiale contro i briganti Circassi. Alcuni sostengono che questo Epilogo sia un sostegno aperto alla guerra Russo – Caucasica poi culminata nel 1862 nel genocidio dei Circassi da parte dello zarismo. Questo punto di vista è completamente sbagliato poiché i sentimenti veri sono espressi in tutto il testo precedente. L’Epilogo, che non è poi così apertamente a Favre dell’esercito zarista, presenta semplicemente un’opinione comune all’epoca e cioè che l’Impero avrebbe liberato il Caucaso da banditi e delinquenti per renderlo abitabile per i russi. Siamo nel 1821, Puskin scrive questo racconto a Odessa, durante il suo esilio. È normale che esprima delle idee comuni e diffuse, pur essendo antizarista (aveva molti amici impegnati nelle cospirazioni contro lo zar). Non possiamo giudicare questo racconto da un Epilogo che esprime le diffuse banalità e convinzioni dell’epoca.
Invece, quello che realmente conta, è il punto di vista narrativo che viene espresso in soggettiva, cioè viene visto con gli occhi del prigioniero stesso, che osserva una popolazione nell’ambiente nel quale vive. Questa integrazione, che abbiamo messo ampiamente in evidenza, è un modo per esprimere la bellezza di un personaggio (il popolo dei Circassi), e dei sentimenti che lo caratterizzano. Dunque il racconto solo apparentemente mostra come soggetto il prigioniero e il suo dramma, perché in realtà ci parla della bellezza dell’altro personaggio che il prigioniero ammira. Il contesto quindi non è solo una sorta di completamento di una vicenda o di suo arricchimento o di illustrazione dei dettagli in cui l’azione si svolge, ma il mezzo stesso attraverso il quale la storia è possibile. Non si contempla la natura, ma la fusione di un popolo con essa.
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