Nel food qualsiasi prodotto è la fine di un processo vitale e perciò rappresenta la morte. Un’articolata analisi che spiega come affronto lo storytelling fotografico di food (e di prodotto in genere), che si articola sempre intorno alla contrapposizione morte – vita.
Il piatto è creato e servito?
Allora l’obiettivo è raggiunto, il risultato è ottenuto grazie alla morte di ingredienti vitali che costituivano elementi vivi, vegetali e animali. Anche se in modo meno evidente, questo vale per qualsiasi prodotto merceologico: il processo di “fabbricazione” è sempre l’espressione di una fine. Il prodotto nasce morto. La vita di qualsiasi nuovo prodotto contiene in sè la morte dei suoi componenti e del suo stesso processo di produzione, insieme alla vita di un nuovo oggetto di consumo. Ma proprio in quanto oggetto di consumo è destinato a morire ancora una volta. Il prodotto, in quanto prodotto vive nella sua molteplice morte.
La morte nel tonno e nella Tesla
Siccome la morte non è mai la benvenuta nella nostra vita, occorre travestirla: nel momento in cui la si rappresenta attraverso l’immagine fotografica di un prodotto occorre superarla per allontanare il pubblico dall’idea di una fine, cioè dalla bruttezza di ciò che rappresenta. Perciò la morte ha bisogno di un nuovo outfit che distolga l’attenzione dal concetto di fine e possa far sognare, cioè andare al di là del suo lato strettamente contingente, reale, che viene mostrato all’osservazione popolare.
Una fetta di tonno alla piastra deve solo essere mangiata. Nel momento in cui viene fotografata quella fotografia rappresenta l’immagine di una parte di un corpo morto, di una fine.
Una Tesla ultimo modello è un cadavere, è un oggetto che rappresenta la fine di un processo. La sua fotografia rappresenta una salma, la salma di un processo di produzione arrivato alla sua conclusione.
Travestire il cadavere del prodotto
Attraverso processi di still life, fashion, composizione, post produzione, ecc. la fotografia cerca di superare la morte dell’oggetto, cerca di renderlo “immortale”, cerca di restituirgli quella vita che ha perso. Deve offrire al pubblico un’immagine che lo allontani il più possibile dall’idea di decesso.
Può riuscire in questa operazione solo se la fotografia isola l’oggetto dal suo contesto, solo se lo considera oggetto in sé, senza nessun’altra aggiunta che lo possa mostrare per quello che è realmente: cioè un oggetto finito, privo di vita.
Evitare la morte in produzione
È facile evitare la morte applicando i metodi dello still life e, quando possibile, con le tecniche di post produzione.
Non disdegno queste procedure, molto affascinanti e creative, ma mi piace molto lavorare direttamente in produzione, mentre i piatti sono prodotti, cucinati, serviti, consumati, quando la frenesia del lavoro incombe, le persone si incontrano – scontrano, i problemi e le tensioni si accumulano.
Il processo in produzione è un processo vitale, di cui voglio parlare in un altro saggio, perché merita una specifica trattazione. Il processo di ricostruzione in studio è un processo di morte, di ridisposizione e trasformazione di cadaveri che poi non vengono neppure consumati, ma gettati nella differenziata dopo l’uso.
In produzione devo stare attento a numerosi dettagli che cambiano continuamente tutti insieme e che devo cercare di cogliere in fretta, esattamente per come li vorrei rappresentare, con le ottiche, le inquadrature, le scelte dei parametri di scatto “giuste”. È una sfida che mi permette di lasciarmi andare, di mettermi al posto del pubblico e di chiedermi:
“Che cosa mi può dare questo prodotto, questo movimento, questa situazione?”
Ho scattato la fotografia qui sotto in produzione, in real time, con lo scopo di trasmettere un concetto più astratto del piatto in lavorazione senza stravolgerne la natura, come invece ho fatto nella fotografia successiva.
Al contrario di quella precedente questa fotografia di un aperitivo non permette di distinguere l’oggetto.
Per essere comprensibile questa fotografia dovrebbe essere inserita in un contesto di racconto testuale o di immagine, che la possa far percepire come aperitivo attraverso i collegamenti che il pubblico potrebbe generare fra la fotografia, i testi e altre immagini.
Ho realizzato questa fotografia, sempre in produzione, proprio per allontanare ancora di più l’oggetto da una percezione realistica e quindi dalla sua “morte”, con lo scopo di ispirare e far “sognare” l’immaginario dello spettatore.
In questa scelta ha avuto un ruolo determinante la composizione cromatica che trasmette sensazioni di equilibrio, di bellezza e di tranquillità.
Qui sotto l’esperto barman che ha preparato il cocktail precedente, mentre fa volte le bottiglie durante la preparazione. Fotografie completamente diverse per raccontare cose differenti (vedi il saggio: “Produzione e movimento esterno – interno nella foto di food” ). Del resto senza una spiegazione esplicita nessuno potrebbe stabilire un legame diretto fra queste due fotografie.
Fate questo esperimento
Adesso fate questo esperimento. Accostate la fotografia di un pesce vivo nel suo ambiente a quella di un piatto stellato con lo stesso pesce come ingrediente principale. Vi sarà chiaro, senza ombra di dubbio, dove si colloca la vita e dove si situa la morte. Se siete persone un minimo sensibili, dovreste almeno provare un lieve disgusto alla vista del piatto. Certo, poi lo apprezzerete e lo mangerete, ma se vi soffermate solo alcuni istanti sulle due immagini e sui loro significati, si formeranno in voi delle emozioni favorevoli alla vita, piuttosto che alla morte.
La bellezza di un pesce nel suo ambiente non può essere compensata da nessuna immagine dello stesso pesce privo di vita, seppur sul piatto di uno chef stellato (Immagini: Ricciola, www.chefmagazine.it, marzo 2019; Ricciola nel piatto, www.salepepe.it/, febbraio 2014; Piatto, www.finedininglovers.it/, data non definita).
Adesso osservate la coppia di fotografie qui sotto.
Vita e morte non sono ancor più evidenti? Non è probabile che questo accostamento susciti un disgusto ancora maggiore?
Fate però caso al fatto che questo disgusto non è alimentato solo dalla fotografia romantica e piena di sentimenti trasmessa dall’abbraccio di una bambina al suo cavallo, ma anche dal fatto che la carne di cavallo viene presentata in modo molto realistico, esattamene per quello che è: un piatto di carne appena tagliata, con tutta la sua texture in evidenza.
Il crudo realismo è un’immagine di morte che uccide la poesia
Il crudo realismo che rappresenta la morte ci dice che solo in determinate circostanze potremo utilizzare immagini così densamente schiette, poiché tendono a uccidere ogni discorso poetico.
Se alla fotografia dell’abbraccio facciamo seguire questo trancio di carne, insieme al cavallo muore anche la poesia.
Detto in altri termini: se stiamo sviluppando un discorso poetico (e qualsiasi narrazione non sia semplice cronaca contiene della poesia), non possiamo uccidere i sentimenti che lo accompagnano con foto realistiche di “volgare” cibo.
Il cibo rappresentato realisticamente per quello che è, di qualsiasi natura, è sempre un prodotto morto, che in sè non sprigiona alcuna poesia. La poesia deve essere appositamente cercata con una fotografia appropriata, oppure aggiunta, o invocata con una storia.
Osservate questa fotografia. Rappresenta un pesce assolutamente morto, adagiato in un vassoio, con il suo occhio privo di vita. Non si può discutere sul fatto che questa immagine contenga la rappresentazione della morte. Quello che ci dobbiamo chiedere è: “Quali sono gli elementi che contrastano questa tendenza, o che cercano di contrastarla?” E poi la domanda successiva potrebbe essere questa: “Fino a che punto questi elementi riusciranno a far dimenticare al pubblico la tendenza verso la morte?”
Ho realizzato in produzione anche questa fotografia. Sono stato attratto dalla combinazione possibile fra inquadratura, colori e texture.
Questa fotografia non può distogliere completamente l’attenzione dalla rappresentazione della morte, poiché è proprio quello che mostra. Però, secondo me, ci dice anche questo:
“Guarda come può essere esteticamente interessante, affascinante e perfino “bella” la morte di un bellissimo pesce”.
Ho pensato di poter trasmettere questa sensazione mettendo a fuoco solo alcune parti della texture del pesce (a dx in basso, intorno alla bocca), lasciando sfocato il resto e accentuando il contrato e la vivezza dei colori. La bocca mi è sembrata di una delicatezza incredibile. Non lo sembra anche a voi?
Osservate la sua linea, non sembra quasi un sorriso? E l’arancione della sua parte superiore, con il grigio – azzurro di quella inferiore, non le conferisce un’armonia, una dolcezza, una serenità molto particolari? Non sembra che questo pesce stia quasi apprezzando lo stato in cui si trova? Oppure che sia morto con serenità (cosa praticamente impossibile).
Se avessi cercato di documentare il processo di produzione del piatto, sarei scaduto nei bassifondi di un realismo che non avrebbe lasciato spazio alla poesia. Avrei dovuto fotografare i pesci interi o quasi nel vassoio per poi mostrare in vari step come sarebbero stati trattati. Ora: tutti voi sapete come si cucina un pesce. C’è proprio bisogno che ve lo mostri io? Non basta un breve testo che racconti qualche accorgimento del grande chef che lo sta trattando, mentre la fotografia è concepita per sollecitare in voi altri pensieri? Magari pensieri legati alla bellezza?
La dialettica non c’entra, specialmente ai funerali
Correggiamo un momento il tiro, ora che abbiamo capito un po’ di cose.
Non è del tutto esatto dire che un prodotto finale è morte perché in realtà esiste una dialettica vita – morte che non si esaurisce in una realtà manichea nella quale da una parte c’è la vita e dall’altra la sua fine. Non è tutto sempre e solo bianco o nero.
La relazione che unisce morte e vita è una relazione dialettica. La vita nasce dalla morte e viceversa. Anche il corpo del più amato dei nostri cari sarà nutrimento per nuova vita. Ma davvero voi pensereste proprio questo al funerale di un vostro parente? Pensereste che il poveretto nutrirà le forme di vita che brulicano nella terra che lo ospita e che ne creerà a sua volta molte altre? La dialettica morte – vita, che esiste, non investe direttamente il momento contingente che viene vissuto dal pubblico che prova i sentimenti generati in quel contesto specifico e non quelli ipoteticamente prodotti da formule logiche e filosofiche.
Per questo motivo il pubblico a un funerale piange e, se è sano di mente, non penserà a quanti vermi potranno vivere grazie al corpo di suo zio! Ciò nonostante la dialettica vita – morte esiste e si svolge indipendentemente dai sentimenti provati dal pubblico in un dato momento, esattamente come la Terra gira su se stessa senza che ve ne rendiate conto.
Un istante che limita
In questo processo complesso, composto da sentimenti del pubblico, fattori contingenti e una dialettica della natura che si compie nonostante tutto, la fotografia rappresenta un solo istante e quindi limita ancor più la percezione globale e dialettica dei processi che sono sottesi.
Cioè non mostra il prima e il dopo di quell’attimo e neppure invita il pubblico a riflettere sul fatto che questo prima e dopo esistano.
Osservate la carne di cavallo sul piatto senza aver prima visto la foto della bambina che lo abbracciava: il piatto di carne vi fa pensare che una bambina abbia abbracciato quello stesso animale prima che fosse ucciso e macellato? No di certo, poiché questa immagine rappresenta solo quel piatto di carne e basta. Voi non pensate al prima e al dopo, ma all’istante fotografato.
Dovreste vedere la bambina abbracciata al suo cavallo per poter stabilire quel preciso legame. Oppure dovrebbe essere appena deceduto il vostro cavallo personale, affinché questo trauma recente stabilisca lo stesso collegamento senza che vediate le due immagini accostate.
Che cosa voglio dire con ciò?
Voglio dire che la fotografia di un piatto, anche se viene rappresentato in modo realistico, senza alcuna poesia o travestimento, non mostra immediatamente a livello percettivo la morte che invece è contenuta oggettivamente nella sua immagine. La foto del piatto di carne di cavallo non fa pensare immediatamente a un cavallo inteso come animale vivo, verso il quale nutriamo dei sentimenti. Occorre riflettere un momento, occorre pensare per stabilire questo legame, che non sorge in modo spontaneo e immediato.
Dunque questo significa che possiamo essere tranquilli e andare avanti a fotografare piatti e cibi come ci pare?
Assolutamente no, perché il fatto che la percezione di morte non sia immediata, non significa che questa tendenza non sia ben reale, ben presente nell’immagine stessa. Una tendenza che potrebbe emergere per qualsiasi motivo, come un apprendista stregone che rimane vittima delle stesse forze che ha evocato.
Tra due poli
Ragioniamo in questo modo.
Il cibo è un cadavere la cui percezione, oltre che da altri fattori, dipende anche dal modo in cui la fotografia lo rappresenta e dal contesto in cui l’immagine è inserita (storytelling).
Perciò dobbiamo sempre considerare che più la rappresentazione del cibo è realistica e più si avvicina alla rappresentazione del suo cadavere; mentre più è simbolica, astratta, più fa sognare e più lontano porta dal suo contenuto mortifero.
Se consideriamo i binomi morte – bruttezza e vita – bellezza, dobbiamo anche aggiungere che più la fotografia è brutta e più mostra il lato decadente dell’oggetto che rappresenta.
Colori e metafore nella dialettica vita – morte
Osservate queste due fotografie, che ho scattato (fra altre, ovviamente), per raccontare il lavoro tradizionale e ultratrentennale di un artigiano pizzaiolo.
La prima fotografia mostra i fiori di zucca raccolti nella bacinella dalla quale sono prelevati per essere distribuiti sull’impasto della pizza, nella teglia. La seconda fotografia mostra i fiori di zucca disposti nella teglia prima della cottura. Notate, fra queste due fotografie, il passaggio dal dato concreto e reale, alla sua rappresentazione come composizione cromatica.
Avrei potuto ignorare i colori e le forme per privilegiare invece l’oggetto in sè, cioè i fiori di zucca disposti sopra l’impasto di una pizza? No, non sarebbe stato nel mio stile. Ne riparliamo fra un momento.
Adesso tornate alla prima fotografia dei fiori di zucca. Avrei potuto ignorare la vaschetta per concentrarmi solo sui fiori di zucca e poi avrei potuto eliminare dall’inquadratura anche l’avambraccio umano che si vede sfocato sullo sfondo.
Perché non mi è parsa una buona idea?
Perché volevo in qualche modo trasmettere l’idea di un “movimento“, di qualcosa di umano che si svolge intorno al fiore di zucca, il quale rimane sempre un oggetto morto, seppur vegetale. Il movimento è vita, e qui si tratta della vitalità di un essere umano, che dalle sue braccia giunge al fiore di zucca. Il fiore di zucca è bello per definizione: la combinazione dei suoi colori è sempre fantastica, nessuno la può ignorare. Ecco quindi che nella fotografia sono presenti diversi elementi vitali come l’uomo, il movimento, la bellezza, tutti a inquadrare un “corpo – vegetale – morto“.
Se osservate bene, anche nella seconda fotografia compare in parte un avambraccio. Lo sapete dal momento che avete già visto la prima fotografia (sono concepite per essere mostrate in successione). Quindi avete, seppur non in modo didascalico, una isotopia, cioè un oggetto che rappresenta la continuità di senso dell’immagine. Non importa quanto questo senso in realtà sia poco esplicitato. State certi che nel cervello del pubblico questo senso rimane e rafforza una percezione positiva dell’immagine e del locale (pizzeria), a cui la fotografia appartiene.
Aprire una prospettiva significa aggiungere vitalità
Adesso concludiamo questa sequenza centrata sul fiore di zucca con una terza fotografia che rappresenta l’immagine finale di questa composizione.
Allora adesso dobbiamo mostrare la pizza? Si e no. Abbiamo fornito molti spunti, possiamo continuare su questa strada. Ecco la fotografia che ho scattato.
Questa fotografia esprime, in un certo senso, una sintesi delle due precedenti.
Mostra il prodotto, ma in piccola parte poiché ne evidenzia la trama e il dettaglio messo a fuoco solo nella zona in basso – sinistra, che trasmette anche la sensazione di un impasto davvero ben cotto e croccante; riprende i colori fra i quali il ciano – blu che ben risaltava nello sfondo, oltre ai colori dei fiori di zucca; mantiene la maggior parte dell’immagine sfocata, ma con una prospettiva molto ampia. Questa profondità di campo è anche una metafora. Seguitemi.
Ho scattato questa fotografia in soggettiva, cioè dal punto di vista del pizzaiolo che la vende, puntando decisamente fuori dalle vetrine del negozio. La teglia è collocata insieme ad altre esposte pronte al consumo (si intravede una teglia di focaccia sulla destra), ma si prolunga oltre il negozio stesso, quasi sulla strada, i cui colori creano un bello sfondo intonandosi con quelli della pizza ai fiori di zucca.
Qual è la metafora?
Dovreste aver capito che ci muoviamo sempre fra due poli: morte e vita. Ho accennato al fatto che il movimento è vita e viceversa. Puntando fuori dal negozio, prolungando la visione dal primo dettaglio iniziale di una pasta croccante con fiori di zucca ben adagiati e cotti, fino all’infinito di una strada, al di là delle vetrine, ho cercato di aprire una vera e propria prospettiva e la prospettiva è movimento per definizione, poiché implica lontananza, tragitto, percorso, viaggio.
Ora, notate che la teglia stessa è in gran parte compresa in questa prospettiva. Non abbiamo una fotografia nella quale il primo piano è ben inquadrato mentre sullo sfondo appare un effetto bokeh ma come elemento distinto dall’oggetto rappresentato. Niente affatto. Ho voluto che la teglia stessa, senza soluzione di continuità, facesse parte sia del primo piano a fuoco che dello sfondo sfocato, avvolto dall’effetto bokeh. E questo per dire: il viaggio, il viaggio della teglia, è cominciato ed è tutto davanti a lei. Quella teglia, quella pizza, quel fiore di zucca, hanno un futuro.
Detto in altri termini: vivono!
Certo, il pubblico non ripeterà tutti i ragionamenti che ho fatto io, ma li percepirà a livello piscologico, inconscio. Il pubblico entra nella metafora senza poterla descrivere ma è dentro la metafora. Ecco perchè viene voglia di provare i prodotti di questo grande e storico pizzaiolo.
I suoi oltre trent’anni di attività assolutamente tradizionale, senza cambiare di una virgola le sue storiche ricette, sono raccontati in queste tre fotografie che sviluppano la storia all’interno di una metafora.
Basta che il pubblico percepisca anche solo una piccola parte di questo racconto perché possa compiere un passo importante che dalla morte lo conduce alla vita. Questo capita anche perché nella normale fruizione di foto di cibo e servizi food, l’esperienza del pubblico è radicalmente antitetica a questo processo, orientato alla vita e alla bellezza.
Infatti adesso parliamo di Instagram.
Instagram: la morte avanza
Potete verificare voi stessi quello che scrivo spulciando fra i milioni di fotografie di cibo che ogni giorno sono pubblicate in Instagram, non solo dalla massa “normale” del pubblico, ma perfino da specialisti e da creatori di contenuti.
Alimenti molto definiti nelle texture che quasi quasi mostrano le cellule da cui sono composti; piatti inverosimilmente trattati con filtri che ne mettono in risalto la banalità e la quotidianità d’uso; gesti sguaiati o poco curati di consumo; inquadrature che insieme al cibo mostrano gli strumenti, le armi di accanimento sui residui di cadaveri serviti in un piatto: posate, tavole scomposte, arredi, commensali, personale di servizio; cromaticità prive di armonia e di equilibrio…
Tutte queste rappresentazioni di cibo nella fotografia di massa ripropongono l’oggetto nel suo quotidiano consumo senza alcuna intenzione di elevarlo.
Cioè senza alcuna intenzione di allontanarlo dalla brutalità del suo consumo, senza alcuna intenzione di mostrare un altro lato, quello verso la bellezza, il godimento, verso nuove sensazioni ed emozioni, che potrebbero depotenziare le operazioni di “autopsia” e di “smembramento” che vengono compiute nel quotidiano consumo di cibo.
Il polo della bruttezza dell’immagine, che si esprime con la rappresentazione realistica della quotidianità del suo consumo, è quello che conduce alla morte; mentre il polo della bellezza, della metafora, dell’astrazione simbolica e poetica è quello che conduce alla vita.
Attenzione!
Nessuno dica che nego l’importanza dell’immagine realistica o che l’immagine realistica in sé non possa toccare livelli poetici. Dico anche molto più di questo: i poeti hanno cantato la morte e, fra questi, i Greci hanno anche indicato nella “bella morte” addirittura un valore universale. Sto solo facendo delle considerazioni sulla fotografia di produzione, in questo caso quella di cibo.
Queste considerazioni hanno lo scopo di farvi riflettere, di stimolarvi a guardare intorno con senso critico affinché possiate fare delle scelte, scelte vere, per non essere trascinati dalle mode del momento, anche se milioni di esseri umani ne sono succubi.
Infatti per la massa, che è appunto condizionata dalla “comunicazione di massa” e da chi la produce, è complicato elevarsi con le sue sole forze. Ma l’appassionato, il professionista, il tecnico che di questo si occupano costantemente… be’ secondo me hanno il dovere di riflettere e di pensare out of the box.
E tu che cosa decidi di rappresentare? Quale lato vuoi mostrare: quello della vita, dei processi vitali o della fine, della morte? E, soprattutto: sei sicuro che le tue scelte vadano in una direzione vitale?
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