Alberto Pian

EROI – NAZIONE E GIOVANI HIPSTER. PER UN NUOVO STORYTELLING NEL 60° DELLA BEAT GENERATION

Affrontiamo questo anniversario dal punto di vista dello storytelling. Ricercheremo quel filo rosso che più di tutti ci può fornire la strada per raccontare una GRANDE STORIA.
Quello più intrigante dal punto di vista narrativo, nasce da una sfida determinata da un’epoca storica precisa (seconda guerra mondiale), che riguarda i rapporti generazionali fra una nazione di padri – famiglie – eroi, e figli e i conflitti che questi rapporti innescano.
È qui il filo rosso della grande storia mai raccontata della Beat Generation. Se dovessi scrivere un film o un romanzo ispirandomi alla Beat non parlerei della droga, di una “liberazione” effimera che in realtà non c’è mai stata, né di una rivolta “anticapitalista” mai realmente espressa e praticata. 
Parlerei della sfida psicologica che investe tutta l’America e la sua realtà degli anni cinquanta, che matura in quel particolare contesto.Volete sapere dove andrò a parare? Dobbiamo ragionare come al solito e, come al solito, lo facciamo partendo da alcuni testi e vicende.

Che cos’è la Beat Generation?

In effetti tutti i ragionamenti devono partire da questa domanda.

E la risposta è che la Beat Generation è il movimento di scrittori e poeti che si formò in negli anni cinquanta fra New York e S. Francisco. Questi Beats si raggrupparono attorno ad alcuni principi di vita, non solo a tecniche e forme di scrittura. L’unione di vita e scrittura è una caratteristica della Beat. I Beat facevano quello che scrivevano e scrivevano quello che facevano

No solo questo, vivevano negli Stati Uniti d’America, la principale potenza imperialista uscita vittoriosa dalla seconda guerra mondiale, conclusa appena sette anni prima.

All’imperialismo americano, “consumista”a e “vincente”, che forgiava i suoi modelli sociali intorno ai valori della happy family medio borghese e del sogno americano, i Beats contrapponevano uno stile di vita anarchico, individualista ma allo stesso tempo comunitario, trasgressivo sul piano sessuale e dei comportamenti sociali, aperto alle droghe e all’alcool, che trovava nel viaggio, nell’incontro fortuito e occasionale il suo asse portante.

I modelli ideali dei Beat non erano certo le figure del ragazzo che passava tutti i giorni a consegnare il latte alla mamma americana in attesa davanti all’uscio della sua villetta a schiera; o del giornalaio che gettava ogni mattina il quotidiano sui gradini degli edifici in stile coloniale della periferia americana!

E perché mai poi? Non è forse un’aspirazione legittima quella di una vita tranquilla, senza problemi economici, condita dall’affetto di una famiglia amorevole? Forse si, ma non lo era per questi ragazzi.

Calma e gesso, vedremo perché questo ideale non avere mai poututo essere il loro.

Gruppo Beat, foto: sconosciuto.

Che cosa significa “Beat”?

Beat significa allo stesso tempo “battuto” e “beato” nello stile bhoémienne di un soggetto solitario che trova i propri valori personali infrangendo la morale comune.

Parte del movimento beat confluirà negli anni sessanta nelle proteste contro la guerra in Vietnam e nel movimento hippie e poi sarà inglobato a livello di un fenomeno di costume, diventando una moda.

Le tecniche letterarie invece persisteranno nel tempo, dando alla scrittura nuove forme e nuovi strumenti che verranno poi ripresi da numerosi autori e artisti.

Fra gli autori della BG figurano Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso, Jack Kerouac, Willliam Burroughs, Allen Ginsberg, Neal Cassaday,  Elise Cowen, Clellon Holmes e, in un certo senso, ci possiamo riferire anche Charles Bukowski. Il fatto che i nomi più noti siano essenzialmente maschi ha una motivazione storica e psicologica che scopriremo più avanti.

La scrittura Beat linguaggio di una community

Sappiamo che gli scrittori Beat hanno sperimentato diverse forme di scrittura. I cinque più importanti sono questi:

  • 1. Una forma espressiva vicina al linguaggio parlato che segue il pensiero stesso (una specie di rivisitazione della tecnica del monologo interiore), come L’Urlo, Allen Ginsberg, 1955; I sotterranei, Jack Kerouac, 1958; Il pasto nudo, William Burrouughs, 1961.
  • 2. Termini non necessariamente semplici, anche ricercati e rari.
  • 3. Accostamento di diversi elementi fra loro, sovrapposizione di pensieri, di eventi, di periodi (una sorta di tecnica del frammento).
  • 4. Evocazione di immagini attraverso la successione di parole (una specie di correlativo oggettivo).
  • 5. Cut – Up, il taglio di un discorso in diverse parti e la sua ricomposizione senza seguire una logica predeterminata (in un certo senso è ciò che avviene oggi dal punto di vista del lettore quando “visita” delle pagine web e social. Ci possiamo riferire anche a Kill Bill Volume 1, Quentin Tarantino, 2003 che pesca a piene mani nei Cut Up della Beat Generation.

Questa rivoluzione nella scrittura può spingersi fino al punto di rendere incomprensibili e di complicato approccio molte opere degli scrittori Beat. Sicuramente è così per il pubblico di massa, ma non per le giovani generazioni che desideravano rompere gli schemi. La tecnica di scrittura non era dunque funzionale allo scrivere, al farsi comprendere, ma al cambiare metodo, al distinguersi, al non confondersi, a difendere la propria integrità. I Beat non volevo essere capiti delle grandi masse piccolo borghesi e dalle élites. Desideravano creare un proprio linguaggio, una comunità di parlanti che si potesse capire nell’ambio della propria cerchia.

Una grande lezione, se pensiamo che oggi si scrive essenzialmente per essere compresi con lo scopo di accrescere fama, follower e business.

Cambiare la tecnica di scrittura non è stata dunque una scelta tecnica e neppure poetica, ma sociale e politica. Le tecniche di scrittura Beat avevano lo scopo di creare una vera e propria frattura nella massa del pubblico per identificare una community separata e divergente dotata di un proprio linguaggio.

L’ambivalenza del termine Beat

Questa “frattura tecnica” deriva da una precisa concezione coniata durante una conversazione fra Allen Ginsberg, Jack Kerouac e Clelloln Holmes.

Il termine Beat contiene un bipolarismo intrinseco nel quale una delle due parti è l’accettazione della “sconfitta”, cioè della condizione del giovane degli anni cinquanta sul terreno mistificato di un imperialismo americano vincente e “prospero”; mentre l’altro polo riguarda la ricerca della beatitudine che avvinò praticando stili di vita alternativi.

Quindi si tratta di una beatitudine che rimane nei limiti Beat, della sconfitta, della condizione di emarginazione, cioè l’accettazione di uno stato sociale contrapposto e separato a un altro che insegue il “sogno americano”.

Ecco che cosa scriveva Allen Ginsberg in proposito

(…) la parola beat è un termine carnevalesco, sotterraneo (sottoculturale) – un termine molto usato allora in Times Square: Man, I’m beat, voleva dire senza soldi, senza un posto dove stare. Poteva anche riferirsi a coloro che camminavano tutta la notte con scarpe piene di sangue sulle rive nevose dei docks aspettando che una porta nell’East River si apra su una stanza piena di vapore di caldo e di oppio (Urlo). Oppure si usava la parola in conversazioni come Ti andrebbe di andare al Bronx Zoo? Nah, man, I’m too “beat”, I was up all night. (No, bello, sono a pezzi, sono stato su tutta la notte). L’uso originario nel linguaggio di strada significava quindi esausto, che ha toccato il fondo del mondo, e da lì guarda fuori o in alto, insonne, con gli occhi ben aperti, percettivo, respinto dalla società, che non ha nessuno su cui contare, conoscitore della vita di strada. O, altro significato un tempo implicito, beat voleva dire finito, compiuto, nella notte buia dell’anima o nella nebbia del non sapere. Poteva voler dire aperto, nel senso whitmaniano di apertura, equivalente a umiltà. In molti ambienti, beat era quindi interpretato col senso di svuotato, esausto, e al tempo stesso aperto e ricettivo alla visione. 

(…) Avevamo un gran lavoro da fare, e lo facevamo, cercando di salvare e guarire lo spirito dell’America.

Allen Ginsberg legge poesie in pubblico. Foto: sconosciuto

Ed ecco come la vedeva Jack Kerouac

La Beat Generation è una visione che abbiamo avuto, John Clellon Holmes e io e Allen Ginsberg in un modo ancora più incredibile, alla fine degli anni Quaranta, la visione di una generazione di splendidi hipsters illuminati che di colpo si levavano e si mettevano in viaggio attraverso l’America, seri, curiosi vagabondando e arrivando dappertutto in autostop, cenciosi, beati, belli nella loro nuova bruttezza piena di grazia – una visione che traeva spunto dal modo in cui avevamo sentito usare la parola “beat” agli angoli di Times Square o al Village, in altre città nelle notti trascorse a downtown nell’America del dopoguerra – beati, nel senso di battuti ma pieni di ferme convinzioni – Avevamo anche sentito vecchi Papà Hipsters delle strade del 1910 usare la parola in quel modo, con malinconico scherno – Non designò mai i giovani delinquenti, designava gli individui dotati di una spiritualità diversa che non formarono mai una banda ma rimasero come Bartleby solitari a guardare fuori dalla finestra cieca della nostra civiltà – gli eroi sotterranei che avevano finalmente voltato le spalle all’occidentale macchina “della libertà” e si drogavano, ascoltavano il bop, avevano lampi di genio, sperimentavano il “turbamento dei sensi”, parlavano strano, erano poveri e felici, profetizzavano un nuovo stile per la cultura americana, un nuovo stile (pensavamo) completamente libero da influenze europee (diversamente dalla Lost Generation), una nuova formula magica – più o meno la stessa cosa stava succedendo nella Francia postbellica di Sartre e Genet [sic!] e per di più ne eravamo al corrente – Ma per quanto riguarda l’effettiva esistenza di una Beat Generation, molto probabilmente era solo un’idea che avevamo in testa – Stavamo su ventiquattr’ore a bere una tazza di caffè nero dopo l’altra, ad ascoltare dischi su dischi di Wardell Gray, Lester Young, Dexter Gordon, Willie Jackson, Lennie Tristano e tutti gli altri, parlando come matti del sacro sentimento nuovo che c’era nelle strade – Scrivevamo storie su non so quale strano e beato santo negro hip col pizzetto che attraversava l’Iowa in autostop con la tromba fasciata, portando il misterioso messaggio del soffiare su altre coste, in altre città, (…) quello che c’era svanì in un baleno durante la guerra di Corea quando (e dopo che) in America apparve un nuovo e sinistro spirito di efficienza, forse era il risultato della universalizzazione della televisione e nient’altro (il Gentile Controllo Poliziesco Totale degli agenti “di pace” di Dragnet) ma dopo il 1950 i beat sparirono in prigione o al manicomio, o furono indotti dalla vergogna a un silenzioso conformismo, la generazione stessa fu poco numerosa ed ebbe vita breve. 

Testi da Allen Ginsberg, The Best Minds of My Generation A Literary History of the Beats, Grove Hardcover, 2017, eBook : https://lithub.com/allen-ginsbergs-definition-of-the-beat-generation/

Jack Kerouac. Foto: sconosciuto.

L’Urlo come esempio

Tutte le tecniche di scrittura  e i significati questo nuovo linguaggio sono contenuti nell’0pera di Allen Ginsberg all’apparenza assurda.

In realtà si tratta di una descrizione molto impressionista delle “menti migliore della mia generazione distrutte dalla pazzia” seguita da un elenco di comportamenti individuali e sociali di queste “menti”, cioè di questi giovani ragazzi, “hypster”, che formano un vero e proprio catalogo di varia umanità che si ritrova negli ambienti  sociali frequentati da questi giovani.

Il testo va letto considerando che la proposizione iniziale è anche quella che regge l’intero discorso, di fronte al quale le altre sono subordinate che formano un unico testo, quasi una cantilena che presenta variazioni timbriche e ritmiche che si devono scoprire indagando durante la lettura.

Infatti senza questi ritmi nascosti non si comprenderebbe il tessuto narrativo che si presenta come la descrizione, in forma di catalogo impressionista, della condizione di questa generazione di giovani allo sbando, eppure così ricca di umanità e così assetata di vita.

Trovare la più genuina e grande storia che nessuno abbia mai raccontato

Su questo testo famosissimo è stato detto e analizzato di tutto. Ma a noi interessa una sola questione: leggetelo come se fosse una sfida. Non leggetelo come una somma di comportamenti o di esperienze, di scelte morali e di stili di vita. Leggetelo come se dietro ogni evento ci fosse la tensione emotiva di una sfida, di un conflitto. Come se tutto quello che accade, avviene per per uno scopo, per raggiungere un traguardo soggettivo, in definitiva: per mettersi alla prova.

Leggetelo in questo modo e se lo avete precedentemente studiato a scuola o ne avete discusso in qualche circolo di intellettuali, dimenticate quello che avete appreso, dimenticate “l’analisi del testo”. Mettetevi nei panni di uno storyteller che fra queste righe può rintracciare la storia più genuina e meno banale possibile, una storia che nessuno ha mai raccontato.

Incipit, Urlo, Alleng Ginsberg, 1956

NB: se conosci già il testo puoi passare oltre

Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa, hipsters dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte, che in miseria e stracci e occhi ínfossati stavano su partiti a fumare nel buio soprannaturale di soffitte a acqua fredda fluttuando sulle cime delle città contemplando jazz, che mostravano il cervello al Cielo sotto la Elevated e vedevano angeli Maomettani illuminati barcollanti su tetti di casermette che passavano per le università con freddi occhi radiosi allucinati di Arkansas e tragedie blakiane fra gli eruditi della guerra, che venivano espulsi dalle accademie come pazzi per aver pubblicato odi oscene sulle finestre del teschio che si accucciavano in mutande in stanze non sbarbate, bruciando denaro nella spazzatura e ascoltando il Terrore attraverso il muro, che erano arrestati nelle loro barbe pubiche ritornando da Laredo con una cintura di marijuana per New York, che mangiavano fuoco in alberghi vernice o bevevano trementina nello Paradise Alley, morte, o notte dopo notte si purgatoratizzavano il torso con sogni, droghe, incubi di risveglio, alcool e uccello e sbronze a non finire, incomparabili strade cieche di nebbia tremante e folgore mentale in balzi verso i poli di Canada Paterson, illuminando tutto il mondo immobile del Tempo in mezzo, solidità Peyota di corridoi, albe cimiteri alberi verdi retro cortili, sbronze di vino sopra i tetti, rioni di botteghe in gioiose corse drogate neon balenio di semafori, vibrazioni di sole e luna e alberi nei rombanti crepuscoli invernali di Brooklyn, fracasso di pattumiere e dolce regale luce della mente, che si incatenavano ai subways in corse interminabili dal Battery al santo Bronx pieni di simpamina finché lo strepito di ruote e bambini li faceva scendere tremanti a bocca pesta e scassati stremati nella mente svuotata di fantasia nella luce desolata dello Zoo, che affondavano tutta la notte nella luce sottomarina di Bickford fluttuavano fuori e passavano un pomeriggio di birra svanita nel desolato Fugazzi ascoltando lo spacco del destino al jukebox all’idrogeno, che parlavano settanta ore di seguito dal parco alla stanza al bar a Bellevut al museo al ponte di Brooklyn, schiera perduta di conversatori platonici precipitati dai gradini d’ingresso dalle scale di sicurezza dai davanzali dall’Empire State giú dalla luna, farfugliando strillando vomitando sussurrando fatti e ricordi e aneddoti e sensazioni ottiche e shocks di ospedali e carceri e guerre, intieri intelletti rigurgitati in un richiamo totale per sette giorni e notti con occhi brillanti, carne da Sinagoga sbattuta per terra, che svanivano nel nulla Zen New Jersey lasciando una scia di ambigue cartoline del Municipio di Atlantic City, straziati da sudori Orientali e scricchiolii d’ossa Tangerini e emicranie Cinesi nel rientro dalla steppa in una squallida stanza mobiliata di Newark, che giravano e giravano a mezzanotte tra i binari morti chiedendosi dove andare, e andavano, senza lasciare cuori spezzati, che accendevano sigarette in carri merci carri merci carri merci strepitanti nella neve verso fattorie solitarie nella notte dei nonni, che studiavano Plotino Poe Sangiovanni della Croce telepatia e cabala del bop perché il cosmos vibrava istintivamente ai loro piedi nel Kansas, che stavano soli per le strade dello Idaho in cerca di visionari angeli indiani che erano visionari angeli indiani, che credevano di essere soltanto matti quando Baltimore luccicava in un’estasi soprannaturale, che sobbalzavano in limousine col Cinese dell’Oklahoma sotto l’impulso di inverno mezzanotte luce stradale provincia pioggia, che indugiavano affamati e soli a Houston in cerca di jazz o sesso o minestra, e seguivano il brillante Spagnolo per chiacchierare sull’America e l’Eternità, causa persa, e così si imbarcavano per l’Africa, che scomparivano nei vulcani del Messico non lasciando che l’ombra dei jeans e la lava e ceneri di poesia sparse nella Chicago caminetto, che riapparivano sulla West Coast indagando sul F.B.I. barbuti e in calzoncini con grandi occhi pacifisti sexy nella pelle scura distribuendo volantini incomprensibili, che si bucavano le Braccia con sigarette protestando contro la nebbia di tabacco narcotico del Capitalismo, che diffondevano manifesti Supercomunisti in Union Square piangendo e spogliandosi mentre le sirene di Los Alamos li zittivano col loro grido, e gridavano giú per Wall e anche il ferry di Staten Island gridava, che crollavano piangendo in palestre bianche nudi o tremanti davanti al macchinario di altri scheletri, che mordevano i poliziotti nel collo e strillavano di felicità nelle camionette per non aver commesso altro delitto che la loro intossicazione e pederastia pazza tra amici, che urlavano in ginocchio nel subway e venivano trascinati dal tetto sventolando genitali e manoscritti, che si lasciavano inculare da motociclisti beati, e strillavano di gioia, che si scambiavano pompini con quei serafini umani, i marinai, carezze di amore Atlantico e Caribbeo, che scopavano la mattina la sera in giardini di rose e sull’erba di parchi pubblici e cimiteri spargendo il loro seme liberamente su chiunque venisse, che gli veniva un singhiozzo interminabile cercando di ridacchiare ma finivano con un singhiozzo dietro un tramezzo dei Bagni Turchi quando l’angelo biondo nudo veniva a trafiggerli con una spada, che perdevano i loro ragazzi d’amore per le tre vecchie streghe del fato la strega guercia del dollaro eterosessuale la strega guercia che strizza l’occhio dal grembo e la strega guercia che sta li piantata sul culo a spezzare i fili d’oro intellettuali del telaio artigianale, che copulavano estatici e insaziati con una bottiglia di birra un amante un pacchetto di sigarette una candela e cadevano dal letto, e continuavano sul pavimento e giú per il corridoio e finivano svenuti contro il muro con una visione di fica suprema e sperma eludendo l’ultima sbora della coscienza, che addolcivano le fiche di milioni di ragazze tremanti al tramonto, e avevano gli occhi rossi la mattina ma pronti ad addolcire la fica dell’alba, natiche lampeggianti sotto i granai e nude nel lago, che andavano a puttane nel Colorado in miriadi di macchine notturne rubate, N.C., eroe segreto di queste poesie, mandrillo e Adone di Denver – gioia alla memoria delle sue innumerevoli scopate di ragazze in terreni abbandonati retrocortili di ristoranti per camionisti, in poltrone traballanti di vecchi cinema, su cime di montagna in caverne o con cameriere secche in strade familiari sottane solitarie alzate solipsismi particolarmente segreti nei cessi dei distributori di benzina, magari nei vicoli intorno a casa, che dissolvevano in grandi cinema luridi, si spostavano in sogno, si svegliavano su una Manhattan improvvisa, e si tiravano su da incubi di cantine ubriachi di Tokay spietato e da orrori di sogni di ferro della Terza Strada inciampavano verso l’Uffício Assistenza, che camminavano tutta la notte con le scarpe piene di sangue su moli coperti di neve aspettando che una porta sullo East River si aprisse su una stanza piena di vapore caldo e di oppio, (…)

(Allen Ginsberg, Howl 1956, Urlo e Kaddish, Il Saggiatore, Milano, 1999, in: http://www.clarence.com/contents/cultura-spettacolo/societamenti/archives/001947.html#001947)

Foto: sconosciuto

Apologia della devianza o sgomento per un conflitto?

Immagino che se lo avete letto come vi ho suggerito, non potete aver trovato in questo testo un’apologia della “devianza” e dell’autodistruzione, della droga, dell’alcool, del sesso fine a se stesso. Non è una fotografia di uno stile di vita, pur essendo leggibile come una fotografia di uno stile di vita.

Come in Steinbeck di Vicolo Cannery, Urlo presenta la dimensione “umana” di una moltitudine di giovani disorientati, privi di una direzione concreta e votati alla decomposizione, emarginati e drop out. Ma la differenza è che nell’incipit di Vicolo Cannery Steinbeck professa una dichiarazione d’amore verso gli emarginati, mentre in Urlo vengono osservati con sgomento da Ginsberg. Sono le “menti migliori” di un’intera generazione a “trascinarsi all’alba” senza più una meta.

La metafora della battaglia

I ragazzi dell’Urlo sono come un esercito allo sbando dopo una battaglia campale. Perciò consideriamo il testo di Ginsberg come lo sguardo verso il campo di battaglia degli sconfitti.

Essere tossicodipendenti o pederasti, alcolisti o solitari viaggiatori in carri merci, scopare dietro i distributori di benzina o fare lunghe camminate parlando di filosofia, non rappresenta forse la condizione simbolica di un esercito sbandato i cui membri cercano di ritrovare una propria identità personale e di gruppo? Non possono essere letti come tentativi e prove per capire quanto si “vale” nella vita dopo la disfatta? Si vorrebbe forse capire quali prospettive attendono questi giovani dopo essere stati dispersi come un tornado disperde i tetti dei prefabbricati?

Non lo sanno, perciò devono mettersi alla prova, devono continuare a sfidare se stessi e la società anche in questa dispersione per poter rintracciare un valore affrontando anche il disvalore

Ma lo sguardo angosciato del comandante (Ginsberg) che ha perso la propria gente che ora vede vagare nel nulla e senza prospettive, gente che a sua volta ha perso la propria identità, ci porta a una domanda:

“Quale battaglia, quale conflitto, quale scontro campale ha mai avuto luogo?”

Padri e figli

Sviluppiamo una riflessione.

Consideriamo che la fine della seconda guerra mondiale riporta in America le salme dei caduti, oppure uomini mutilati o integri, ma con un bagaglio eroico di esperienze e di storie ineguagliabile. Uomini e donne che hanno affrontato la sfida più difficile che un uomo possa mai affrontare: quella della morte, legata al fato, al caso e all’uccisione diretta di altri uomini. Uomini che hanno vissuto le estreme condizioni di una vita che correva sempre sul sottile filo di un’esistenza estrema.

Bene, chi sono questi uomini? Sono i padri della generazione che sarà matura negli anni cinquanta e sessanta, i figli nati negli anni trenta e quaranta. Questi figli hanno di fronte a loro dei padri, tutti indistintamente, eroi di guerra: morti, vivi, sani, mutilati o ammalati. Hanno di fronte madri eroine di guerra che semplicemente si sono immolate negli uffici militari in patria per garantire il coordinamento e l’assistenza o come infermiere nei campi di battaglia e in patria. Sono altri cugini, amici che forse  hanno giocato un ruolo indiretto nella guerra ma che fanno parte di questa massa eroica che ha combattuto e vinto il demone nazista e giapponese, dopo il tradimento di Pearl Harbour.

 E c’è, dall’altra parte, un’intera generazione che si deve dunque confrontare con un vero e proprio mito in carne ed ossa, presente direttamente o indirettamente, in tutte le famiglie americane scolpito nella bandiera a stelle e strisce. È il mito dell’eroe di guerra di un’intera nazione.

Soldati della Marina e dei Marines in posa per una foto durante la Seconda guerra mondiale. (Foto: Jason Ragucci/Esercito degli Stati Uniti).

Uccidere il “padre – eroe – nazione”

Dunque se “superare” il padre (“uccidere il padre”, dice metaforicamente Lacan), è condizione indispensabile per la maturazione di un giovane, se il “confronto” con il simbolo paterno si trasforma nell’impossibile ostacolo di non poter mai, in qualche modo, equiparare o superare la condizione di “eroe” che la generazione dei padri – combattenti (intendo qui una sorta di “padre allargato” che comprende numerosi componenti maschili e femminili, di diverse età, in famiglie che hanno dato il loro contributo allo “sforzo bellico”), si trova appiccicata addosso alla propria esperienza di guerra, allora il confronto diventa impossibile.

Immaginate un ragazzo che scrive un bel tema, ottiene una vittoria con la sua squadra del College, o riesce a cucinare buone ricette o a riparare da sè la moto. Che cosa può mai dire dei suoi successi di fronte agli eroi di guerra da cui è circondato dentro e fuori la propria famiglia e nella nazione americana la quale, proprio grazie alla grande vittoria militare, può rilanciare il “sogno americano”, schiantato negli anni trenta a Wall Street e nei campi di mele della California?

Come essere “eroi” a propria volta, se l’esperienza eroica di un’intera nazione resta così irripetibile, così distante e non replicabile? Non esiste alcuna esperienza adolescenziale che possa essere in qualche modo confrontata all’esperienza universale di una guerra mondiale vinta con il concorso della zia infermiera o centralinista del padre scampato per miracolo ad Anzio o ucciso nelle Ardenne, o dello zio, o del fratello maggiore sopravvissuti in Normandia, o amputati sulla Linea Gotica.

L’impresa impossibile di una generazione

Se invece hai un padre “pioniere”, un eccellente “tecnico”, un fratello maggiore buon “lavoratore” o cresci in una famiglia che si è “fatta da sé” (secondo il canone del mito americano), allora in qualche misura potrai emulare e “superare” i tuoi famigliare. Potrai sposare più avanti il traguardo delle tue ambizioni. Potrai sempre ambire a qualcosa di meglio semplicemente coltivando le tue aspirazioni personali e perseguendole studiando, lavorando, progredendo e cercando la tua strada. Ma un padre – famiglia – nazione “eroi di guerra” le cui storie sono universali e immortali solo per fatto di essere parte della grande narrazione del mito della conquista, della vittoria e della dominazione mondiale, rappresentano essi stessi il mito “superiore massimo”, concreto, vivente, reale, quotidiano. Una mitologia che trascende qualsiasi tua esperienza quotidiana possibile perché, quale che sia, posta di fronte  alla “Grande Storia Universale”, che cosa vale?

Cimitero militare USA in Normandia

Tutto ciò non riguarda solo i singoli casi. Non occorre necessariamente che il “proprio” padre sia un eroe di guerra (vivo, morto o mutilato), poiché il “padre – eroe” è un vero e proprio mito sociale che comprende donne, adulti e vecchi che nell’America vincitrice del dopoguerra, nell’America che ha combattuto su tutti i fronti, dalla Normandia all’Africa, passando per l’Italia e il Pacifico è diventato un simbolo unico e universale.  Padri – Eroi – Eroine – Nazione, si confondo fra loro in una sola Grande Leggenda. A scuola troverai compagni che raccontano questo mito, insegnanti che ti diranno che di fronte a questo grande mito americano tu non vali nulla, devi solo pensare alla tua misera vita di studente e a farti il mazzo, perché quale che sia il tuo dolore questo sarà sempre insignificante di fronte al “Grande Mazzo Americano”. E la propaganda di massa, il marketing politico di una nazione e delle sue multinazionali che escono dalla guerra ricche sfondate grazie ai cadaveri di quell’America Leggendaria, non ti lascerà respirare, confermando che il tuo destino è insignificante.

E allora, se vorrai conquistare un destino, non potrai scatenare una guerra per mostrare che saresti stato anche tu un buon soldato eroe di guerra. Non potrai sfidare nessun nemico esterno perché questi è superiore e irraggiungibile o, semplicemente non esiste perché vaporizzato nel mito americano.

Sfidare se stessi

Perciò dovrai semplicemente sfidare te stesso. Dovrai usare il tuo corpo per metterlo alla prova, dovrai sfidare la tua intelligenza. Dovrai aprire la strada alla tua rovina.

In un film con la partecipazione di Jeams Dean, Gioventù bruciata, un gruppo di ragazzi cerca di misurarsi affrontando come può la morte attraverso un gioco. Questi giovani si lanciano con le auto a tutta velocità, vince chi frena il più tardi possibile arrestandosi al limite estremo di un dirupo. È una generazione “bruciata”, appunto, che deve trovare degli éscamotages per provare a se stessa di valere qualcosa, in una competizione impossibile con un’America eroica, vincente sul piano mondiale, con le canne dei fucili ancora fumanti, già chiamata a sostenere un altro conflitto mondiale contro la sua rivale, l’URSS, pronta a una nuova guerra fredda e nucleare.

È in questo contesto che, a mio parere, deve essere letta la sfida (autodistruttiva), cioè la sfida con la morte, che molti giovani (beat compresi), intraprendono con le sostanze stupefacenti, l’alcool, la ricerca di uno stile di vita diametralmente contrapposto ai valori ufficiali della società americana degli anni cinquanta e sessanta. Sotto il profilo psicologico si tratta di una sfida generazionale che viene spostata su un piano simbolico, dato che non si può svolgere concretamente nella realtà vivente di tutti i giorni. Lo spostamento del conflitto sul piano artistico rappresenta certamente una via d’uscita che produce nuovi movimenti letterari e artistici che vale in senso generale, non certo per ciascuno dei suoi autori, le cui vite, sovente, vengono presto spezzate.

Poster Rebel Without a Cause 1955

In conclusione

Dunque, alla fine, se dovessi parlare della Beat Generation, se dovessi scrivere un film o un romanzo su quell’epoca non farei né un documentario, né risolverei la questione come spesso è stato fatto, centrando la narrazione sulla trasgressione e la rivolta.

No, il filo rosso di una grande storia che trae ispirazione dalla Beat, a mio avviso è in quello che ho scritto: nel conflitto impossibile fra una generazione normale di giovani, soffocata da un mito simbolico irraggiungibile e consolidato da una propaganda asfissiante. Una proponga intensificata dal maccartismo, che non lascia alcuna via d’uscita se non giocare sul terreno di un business rilanciato alla grande dopo la crisi del ‘29, grazie all’inutile sacrificio delle famiglie di un’intera nazione.

Perché definire “inutile sacrificio” il macello della seconda guerra mondiale? Chiederà il lettore.

La domanda è legittima, ma la risposta riguarda un’altra storia.


 


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