Mentre oggi il mondo rischia una devastante GUERRA NUCLEARE, nel 1983 l’ufficiale dell’esercito russo Stanislav Petrov salvava l’umanità dalla terza guerra mondiale. Conosci il ROMANZO BREVE “LE LUCI ROSSE DEL COLONNELLO”, liberamente ISPIRATO a questa STORIA VERA? Oltre 600 recensioni positive per un racconto che ho scritto con grande passione e un capitolo di storytelling rivolto al lettore
Perché ho scritto questo romanzo breve?
Ho scritto questo libro per cambiare il corso della storia e per mostrare tutta la forza creatrice della narrazione, della letteratura, dello storytelling. Certo, si tratta di un cambiamento ideale. In realtà la Storia non è stata tenera con l’ufficiale dell’esercito dell’URSS Stanislav Petrov che, dopo aver salvato il pianeta da un possibile conflitto atomico, è stato rinchiuso nel baule dei ricordi dimenticati che ammuffisce in soffitta.
Quando ho avuto notizia della sua storia, una domenica mattina, mi sono messo subito a scrivere. Detesto, odio, le ingiustizie. Non posso scrivere su ciascuna di loro, ho scritto un breve romanzo su questa.
Allo stesso tempo, nell’ultimo capitolo, fornisco al lettore delle informazioni specifiche su come l’ho costruito. Mi sono ispirato alla storia vera di Stanislav Petrov ma l’ho voluta rendere romantica, ho voluto scavare in quella che mi sembrava essere un’umanità da non dimenticare.
Non dico altro, il lettore, leggerà…
Apprezzamenti
Questo romanzo ha ricevuto centinaia di recensioni positive. È stato molto apprezzato anche da chi esprime posizioni critiche e ne sono molto contento.
Maurizio 5,0 su 5 stelle Un breve resoconto sul perché siamo ancora vivi. Partire da un fatto reale, anche se ignoto ai più, e trarne un romanzo breve, ma piacevole, non è facile. Immaginare la vita privata del protagonista e vederlo in azione in un momento di estrema tensione è molto coinvolgente, anche se l’autore scrive con un certo distacco, ma dà i mezzi per trovarsi coinvolti, senza forzare.
Patrizia C. 5,0 su 5 stelle. Insolita storia. Quando un militare ragiona con la propria testa opponendosi a quello che sembra ineluttabile. Bellissimo esempio di umanità e intelligenza.
Simon R. 4,0 su 5 stelle. Non sono in linea con la scelta dell’autore di romanzare su un fatto storico così determinante per l’umanità, avrei preferito trovare un libro di approfondimento dei fatti. Per questo ho tolto una stella. Una storia che merita di essere letta.
Mi scrivono in tanti. Ambrogio, qualche giorno fa mi ha mandato questo messaggio:
“Bella l’idea, ottima la suspance, originale e istruttivo il post scriptum per il lettore. Una storia incredibile, come chissà quante altre a noi sconosciute. Mistero dell’essere umano. Mi piacerebbe vederlo rappresentato in un teatro, bei dialoghi, bella tensione. Se intercetto qualche compagnia amatoriale provo a proporlo…”
Come acquistarlo
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Qualche citazione
Ascolta “Volare come una gru“, il Canto funebre ucraino che viene citato nel romanzo.
I (antefatto)
269 persone non si accorsero di nulla.
O meglio, un bambino con il nasino attaccato all’oblò ebbe il tempo di dire – 평면, – che significa aereo in lingua coreana. Il suo nome era Haneul, che vuol dire cielo. E infatti il cielo accolse per sempre il piccolo Haneul, che vide il caccia russo affiancarsi al Boeing KAL007, sul quale stava volando da New York. “평면” “aereo”, ripeté deluso qualche istante dopo, quando l’inaspettato vicino sparì dalla sua visuale. La mamma, Katie, abbozzò un sorriso mentre canticchiava Walk on the Wild Side. Avrebbe riabbracciato suo marito a Seul. Per lui custodiva un disco che Lou Reed le aveva firmato al Washington Square Park qualche settimana prima, nel travolgente concerto durante il quale Katie aveva ballato fumando della marijuana. Il piccolo Haneul non poté immaginare che il MIG 29B era scomparso alla sua vista per mettersi – chissà mai perché! – alle sue spalle, proprio sulla scia del Boeing. Ed egli, quindi, non vide il lampo che disintegrò il volo e tutti i suoi passeggeri in una frazione di secondo.
Il suo piccolo corpo smembrato volteggiò nel cielo e si disperse nell’azzurro insieme al suo nome Haneul mentre le note di Walk on the Wild Side si frantumavano contro le nubi bianche nascoste dalla notte nera.
Quella stessa sera al Cremlino il maresciallo Nikolaj Ogarkov, Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, accarezzava il busto di Marx.
L’onice freddo scivolava sotto i suoi polpastrelli. Un alto ufficiale era fermo sull’attenti da un bel pezzo. Il primo settembre 1983 a Mosca la temperatura era scesa parecchio, dopo la calura di luglio che lo aveva costretto a dormire sul balcone. Il termometro aveva segnato la sua stessa età: 47, un bel numero? Non lo avrebbe scordato. Il maresciallo Nikolaj Ogarkov non usciva dal suo silenzio e il Generale di fronte a lui non era affatto scomodo nella sua posizione. Il maresciallo Ogarkov tardava a formulare la domanda perché conosceva la risposta che avrebbe ascoltato. E, nonostante quella risposta, il Generale che aveva di fronte sarebbe stato degradato e spedito a sorvegliare qualche metro di territorio, scelto fra gli oltre 22 milioni di Km2 in cui l’Unione Sovietica si distendeva. Sarebbe bastato puntare un dito a caso sulla cartina per cambiare la vita di quel Generale e della sua famiglia. Non che il Maresciallo lo desiderasse in modo particolare, ma era quello che si sarebbe fatto per mostrare un segno di espiazione a Washington e a Seul.
(…)
(Dal CAP. II)
– Vedi, è di notte che si possono verificare i problemi più insidiosi. Per questo c’è bisogno di una persona affidabile.
– Un attacco nucleare non è all’ordine del giorno. – Disse Veveya, cercando più che altro di convincere se stessa.
Le accarezzò la guancia e disse: – Lo credi davvero? Comunque hanno più bisogno di me durante la notte che di giorno. E poi sto attento, non ti devi preoccupare, probabilmente è stato proprio il generale Malikov a preferire che fossi io a sostituirlo per qualche mese.
Prese il thermos riempito di caffè fatto con una macchinetta italiana, un privilegio riservato agli uomini dell’apparatchik. I suoi colleghi portavano al bunker anche una piccola fiaschetta di vodka e del caviale. Stanislav Petrov no, lui non beveva alcolici e il caviale non gli era mai piaciuto. Preferiva un piatto di verze bollite, come quelle che cucinava la sua bisnonna, il cui vapore caldo si mescolava alla nebbia della campagna della Zakarpatja. Il colonnello Stanislav era per i ricordi. La vodka li cancellava, la zuppa di cavolo li nutriva.
– Facciamo colazione insieme domani mattina? – le sussurrò Stanislav all’orecchio.
(…)
(Dal CAP. VV)
Da qualche minuto il Colonnello, stanco di essere in piedi, ma senza alcuna voglia di sedersi, aveva assunto la posizione del riposo: le gambe dritte, divaricate, le mani incrociate dietro la schiena ben eretta, il viso teso sul collo, quasi privo espressione. Alto un metro e novanta, muscoloso e asciutto, il colonnello Stanislav era una pacata e granitica presenza. Se ne rese conto quando tutti si voltarono verso di lui. Avrebbe dovuto impartire istantaneamente degli ordini. E invece si lasciò cullare dal calore che pervadeva il corpo, quindi, rimanendo nella stessa posizione – soprattutto per impedire che la tensione o, peggio, il panico, si manifestassero fra quegli uomini – si rivolse al maggiore Diachkov.”
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