Alberto Pian

Alberto Pian

IL MIO CUORE MESSO A NUDO, 1863, CHARLES BAUDELAIRE. L’IDEOLOGIA DEL CAPITALISMO E CHIARA FERRAGNI (CON LA PARTECIPAZIONE DI ELIO VITTORINI E CAPPUCCETTO ROSSO)

(note a fondo articolo)

Il 27 giugno dello scorso anno (2022), l’influencer Chiara Ferragni accompagnava l’On. Senatrice a vita Liliana Segre – che aveva invitato l’influencer il 17 maggio (1) – al Memoriale della Shoah, presso la Stazione Centrale di Milano (2). La notizia ha fatto il giro dei media: Chiara è rimasta in silenzio ad ascoltare le terribile storie di una donna espulsa dalla scuola di Milano a causa delle leggi razziali, respinta dalla Svizzera alla frontiera, deportata dai fascisti italiani ad Auschwitz-Birkenau, quindi liberata dall’Armata Rossa. Una donna cresciuta con un peso che nessuno le potrà mai cancellare.
Leggendo questa notizia ho pensato al cinismo senza fine del marketing e della pubblicità, in grado di usare persone, eventi, tragedie senza batter ciglio, come uno schiacciasassi.

Introduzione

Non importa sapere se l’invito sia stato inizialmente avanzato dalla Senatrice e poi colto al volo e organizzato dallo staff della Ferragni, o se interamente partorito da quest’ultimo, o che altro. Abbiamo assistito a una grande operazione di marketing con al centro un’influencer e, come tale, ne parliamo.

In effetti è una storia di marketing di successo. Proprio dopo l’invito da parte della Senatrice e a qualche giorno dalla visita al Memoriale, il 20 giugno l’influencer è stata chiamata a coopresentare il più grande evento mediatico italiano, il Festival di San Remo. Domanda: per il marketing della Ferragni la visita al Memoriale è stata un’operazione di restyling necessaria per rendere l’influencer presentabile al principale spettacolo organizzato da un organo dello Stato (la RAI)?

Le argomentazioni della Senatrice, dal canto suo, sono più che legittime: perchè non utilizzare la presa di un influencer verso i giovani per richiamare l’attenzione sulla Shoah? Si può discutere sull’efficacia di questa idea. Il presidente del Codacons, Carlo Rienzi, per esempio, era del parere che la presenza della Ferragni al memoriale svilisse la tragedia e il senso del suo ricordo (3). Si può affrontare questo tema. Ma ciò che ha attirato la mia attenzione è stato il cinismo del mondo del marketing.

Chissà, mi sono chiesto, se i professionisti del marketing della Ferragni si sono ispirati a tavolino all’archetipo di Cappuccetto Rosso: brava-e-ingenua—bambina-con-nonna-affettuosa-che-ha-attraversato-la-più-grande-tragedia-umana? Oppure si sono detti a posteriori: toh! Guarda che fortuna abbiamo con questo modello che ci piove dal cielo.

Il risultato è che un insieme di circostanze ha permesso all’influencer di ottenere quello che sembra essere il suo più grande successo di sempre. O forse voi credete che nel mondo del marketing ci sia un reale senso di costrizione e di pietas verso le tragedie dell’umanità e delle singole persone?

Quello che qui mi interessa analizzare è come un influencer si collochi in questo tipo di eventi, rappresentando perfettamente i canoni dell’ideologia dominante, che è quella del capitalismo.

In che cosa consiste questa ideologia? Perché il “buonismo” ne è il suo aspetto principale? Perché Charles Baudelaire ci illumina quando denunciava gli “orrori” della stampa e parlava della sua amica, la puttana Villedueu? Perché dobbiamo fare un accenno alla “cultura consolatrice” di cui parlava Elio Vittorini?

Ho scritto il saggio che state leggendo nell’agosto del 2022 in montagna in Trentino, pensando poi di pubblicarlo più avanti insieme ad altri contenuti che ho preparato in estate. In questo WE, quando ho deciso di pubblicarlo, mia moglie Federica che lo aveva letto e ricordava quello che avevo scritto, mi ha inviato il bell’articolo di Sandra Figliuolo, (vedi Facebook) di cui riporto una citazione (4) (Sandra Figliuolo, Chiara Ferragni è solo l’orribile specchio del capitalismo, Today Sicilia, 10 febbraio 2023). Vi invito a leggerlo (“dietro i selfie e i trucchi c’è il nulla assoluto e non ci vuole neanche tanto a smascherarlo”: è una chiara e precisa, oltreché giusta, presa di posizione).

Spero che anche questa analisi si possa aggiungere a quegli articoli e commenti che possono risvegliare le coscienze critiche delle persone.

Perciò partiamo da Charles Baudelaire.

Il mio cuore messo a nudo

Il 5 giugno del 1863, Baudelaire scriveva a sua madre che avrebbe pubblicato un libro per mostrare tutto il suo disprezzo nei confronti della società contemporanea:

Sarà un libro di rancori (…) voglio far sentire ininterrottamente che mi sento come uno straniero al mondo e ai suoi culti. Rivolgerò contro la Francia intera il mio reale talento per l’insolenza. Ho bisogno di vendetta come un uomo stanco ha bisogno di un bagno”.(5)

L’opera è una raccolta di prose, di brevi testi e di aforismi conosciuta come Il mio cuore messo a nudo. Sarà pubblicata postuma solo nel 1909, nonostante Baudelaire avesse fatto di tutto per sistemarla e per divulgarla in vita.

In quel diario Baudelaire non mette “a nudo” solo il proprio cuore, quanto la doppiezza e la falsità della società in cui vive, la Francia della nuova borghesia capitalista e finanziaria di Napoleone III.

Oggi, all’epoca dell’imperialismo, della globalizzazione e dei social media, quello di Baudelaire continua a essere un testo per “addetti ai lavori”, ma di un’attualità sconcertante.

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I giornali sono solo “un tessuto di orrori”

A proposito dei media (all’epoca c’erano i giornali), Baudelaire scriveva:

È impossibile scorrere un giornale qualsiasi, non importa di che giorno o mese o anno, senza trovarci ad ogni riga i segni della più spaventosa perversità umana, contemporaneamente alle vanterie più sorprendenti di probità, di bontà, di carità, e alle affermazioni più sfrondate relative al progresso e alla civiltà. Ogni giornale, dalla prima all’ultima riga, non è altro che un tessuto d’orrori. Guerre, crimini, stupri, impudicizie, torture, delitti dei principi, delitti delle nazioni, delitti dei singoli, un’ubriacatura generale di atrocità. Ed è con questo nauseante aperitivo che l’uomo civilizzato accompagna la sua colazione ogni mattina. Tutto, in questo mondo, trasuda il delitto: il giornale, i muri e il volto dell’uomo. Non capisco come possa una mano pura toccare un giornale senza una convulsione di disgusto.

Baudelaire ci diceva che il marciume del mondo veniva quotidianamente diffuso con grande nonchalance dai media come un segno “della più spaventosa perversità umana”.

L’impeto critico di Baudelaire mette il luce l’essenza di tutta la “comunicazione” odierna: allora come oggi per i media il responsabile di questo marciume si trova nella “perversione” dell’umanità stessa e non nel capitalismo, cioè nel sistema che la genera.

Egli dice: 

“Non capisco come possa una mano pura toccare un giornale senza una convulsione di disgusto”.

Perché questo “disgusto” non si genera e non si diffonde?

È tutto lecito tranne una sola cosa

Perché tutta la comunicazione è organizzata proprio per impedire che si sviluppi un sentimento di rivolta sociale. Cioè un sentimento di rivolta contro il capitalismo, contro il meccanismo che genera questi orrori.

Attribuendo la “responsabilità” degli orrori all’umanità stessa, i media ci dicono semplicemente questo: tu sei parte di questa umanità, tu sei responsabile. Dunque potresti mai rivoltarti contro te stesso? E se non ti senti parte di questa umanità, attribuirai le colpe a quella parte di umanità che pensi sia peggiore di te.

Quindi:

  • o fai parte dell’umanità perversa e non ti puoi rivoltare perché sei coinvolto;
  • o ti tiri fuori e accusi altri esseri umani, ma anche in questo caso non ti puoi rivoltare contro il capitalismo. Al massino te la puoi prendere con i tuoi simili.

Perciò il mantra della comunicazione di massa del capitalismo è semplice: tutto è lecito, tranne che prendersela con i meccanismi economici e sociali che generano gli orrori che leggi sui giornali, cioè con il capitalismo e con le sue istituzioni mondiali.

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Prendere al laccio il gonzo

Nessuno strumento di comunicazione di massa è disposto a dire la verità sul sistema sociale ed economico che ci governa, perché la propria vita dipende dalla sua esistenza. Per i media le guerre e ogni sorta di delitti, violenze, aggressioni, dispotismo, terrorismo, malavita, nascono da un essere umano “malato”, non la società che lo infetta.

Tanto nella sua epoca quanto oggi, lo scopo della società continua a essere quello che aveva denunciato Baudelaire, cioè di “prendere al laccio il suo gonzo sul Boulevard”. Baudelaire scriveva:

Niente di più assurdo del Progresso, dal momento che l’uomo, come è provato dalla realtà di ogni giorno, è sempre simile e uguale all’uomo, vale a dire dello stato selvaggio. Che cosa sono i pericoli della foresta e della prateria paragonati agli scontri e ai conflitti quotidiani della civilizzazione? Che l’uomo pigli al laccio il suo gonzo sul Boulevard, o trafigga la sua preda in foreste inesplorate, non è forse l’uomo di sempre, vale a dire l’animale da preda più perfetto?

Che oggi l’uomo venga “preso al laccio” da un sistema finanziario che lo spenna fino al midollo, da uno spacciatore, da un influencer che espone marchi, o da un uomo di governo che non vede l’ora di fornire armi per sostenere una guerra, nulla è cambiato rispetto ai tempi di Baudelaire, se non la forma e l’intensità di questo marciume, che è esponenzialmente “peggiorata”.

Giustamente Baudelaire affermava:

In ogni uomo ci sono, ad ogni istante, due postulazioni simultanee: l’una verso Dio, l’altra verso Satana. L’invocazione a Dio, o spiritualità, è un desiderio di salire di grado: quella a Satana, o animalità, è una gioia del discendere.

Possiamo così dire che il desiderio di salire di grado tende a rimettere in causa il capitalismo nel suo complesso, che invece ci spinge ogni giorno verso il lato più oscuro, verso la barbarie.

“Moriremo per ciò di cui avremo creduto vivere”

Quindi Baudelaire si chiede ironicamente per quale ragione il mondo riesce a sopravvivere a se stesso:

Il mondo sta per finire. La sola ragione per cui potrebbe durare, è che esiste. Questa ragione è debole, paragonata a tutte quelle che annunciano il contrario, in particolare a questa: Che cosa ha da fare ormai il mondo sotto il cielo? – Infatti, supponendo che continuasse ad esistere materialmente, sarebbe un’esistenza degna di questo nome e del dizionario storico? (…) moriremo per ciò di cui avremo creduto vivere. La meccanica ci avrà talmente americanizzati, il progresso avrà atrofizzato così bene in noi tutta la parte spirituale, che niente, tra le fantasticherie sanguinarie, sacrileghe, o antinaturali degli utopisti, potrà essere paragonato ai suoi risultati positivi.

Il mondo esiste, dice Baudelaire e questa è la sola sua ragione per cui va avanti.

È vero, il mondo va avanti per inerzia, perché nessuno lo ferma. Ma che cos’è il mondo se non il capitale, tradizionale e finanziario, che lo plasma e lo governa? E che cos’è l’inerzia se non il tentativo di intossicare le persone per farle desistere da ogni cambiamento?

Ecco perché “Moriremo per ciò di cui avremo creduto vivere”. Perché l’ideologia ci illude che esista una sorta di “progresso”, come dice Baudelaire, che ci permetta di cambiare il mondo senza cambiarne le sue radici. È quello che ci dice l’ideologia dominante e di cui parla Baudelaire: affidate le vostre speranze unicamente al “progresso”. Peccato che il cosiddetto “progresso” sia gestito dal capitalismo stesso, cioè sia solo uno strumento per il “consumo” e non un valore sociale!

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Americanizzazione della società

Basta ricordare che tutti i mezzi di comunicazione odierni, la telematica e Internet sono nati per scopi militari (Arpanet). E quando la tecnologia non è rivolta a fini militari? A questa domanda rispondo con un’altra domanda: “La tecnologia sorge per soddisfare la creazione di profitto o per risolvere bisogni umani e planetari? E se il suo scopo fosse la soluzione dei bisogni umani quanti ne sarebbero stati affrontati e risolti se tutte le ricchezze ed energie fossero orientate a questo scopo?”

Per il capitalismo produrre burro o cannoni, pacemaker o benzina è indifferente, dipende solo dai benefici del mercato e dai proventi della speculazione, non da considerazioni etiche e sociali. Se esiste una domanda che possa generare capitale, si produce, altrimenti no. E se non si possono produrre oggetti, si produce speculazione poiché una sola cosa conta: creare capitale. 

È questo che bisogna intendere quando Baudelaire parla di “americanizzazione”, cioè della natura stessa del capitalismo.

Ovviamente questa verità non può essere espressa così crudamente. Anzi, deve essere mascherata, mistificata. C’è bisogno di una ideologia ben strutturata che la nasconda.

Questa ideologia esiste ed è formata dall’insieme delle affermazioni, delle notizie, mezze verità e bugie, di espressioni pretese morali e culturali che ogni giorno viene diffuso dai mezzi di comunicazione di massa (social compresi). Stiamo parlando della produzione di una ideologia alla quale concorrono tutti i mezzi di comunicazione.

Alle radici del “buonismo”

Abbiamo visto che questa ideologia deve bilanciare e compensare il racconto degli “orrori” quotidiani di cui parlava Baudelaire, distribuendo colpe e responsabilità fra l’umanità stessa. Se non facesse questo il pubblico vivrebbe nell’angoscia esplosiva di un “mondo” di orrori, e potrebbe giungere a una conclusione nefasta: il responsabile è proprio il “mondo” stesso, cioè il capitalismo. Generando così “insane” rivolte e accendendo addirittura aspirazioni socialiste.

Dunque se non si vuole mettere in crisi tutta la società contro gli orrori che partorisce, occorre davvero mostrare un’altra faccia della medaglia.

Una delle forme principali di questa compensazione è conosciuta come “buonismo”. 

Attraverso il buonismo l’ideologia ritorna vergine, mostra un lato assolutamente puro, infantile, votato al bene, in grado di compensare l’aspetto primitivo e selvaggio che viene quotidianamente raccontato. 

Attraverso il lato buonista della narrazione mediatica, i soggetti si possono riconciliare nell’illusione di elevarsi, di essere “diversi”, di non essere contaminati dal marciume generale.

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Salvare il boia, abbandonare la vittima

Siccome il marciume è generato dall’uomo stesso, ti dice l’ideologia capitalista, e i tuoi simili sono i responsabili, tu ti devi distinguere da loro. Insieme ad altri saria “buono” e “corretto”, e non sarai responsabile degli orrori del mondo.

Lo scopo dell’ideologia è salvare il boia (il capitalismo) per rigettare le colpe sulle vittime (i soggetti umani), dividendole in due fazioni: i “buoni-sti” e i “cattivi” responsabili della deriva globale.

Il metodo simbiotico

Però bisogna fare attenzione.

La narrazione ideologica non presenta il lato oscuro, “satanico”, di cui parlava Baudelaire, allo stesso modo di quello “spirituale”, che tende a elevarsi. Non è una lotta tra due poli. Il capitale detesta i conflitti sociali, il suo metodo è la simbiosi, inglobare tutto possibilmente senza frizioni.

Perciò avviene un fatto curioso. Per i media la natura “satanica” e “selvaggia” è qualcosa di globale, che comprende tutta l’umanità in quanto tale, colpevole nel suo insieme. Invece il lato opposto deve essere incarnato solo da singoli soggetti, non da tutto il genere umano. Deve essere ristretto all’eroe (o alla sua “squadra”), che combatte contro tutto.

Nella narrazione mediatica il “satanico” è di tutti, la “spiritualità” solo di alcuni che devono fungere da modelli per la massa. Gli influencer, in linea generale, ricoprono molto bene questo ruolo di modelli.

L’illusione di una vittoria

La ragione di questa differenza di peso è semplice: il modello buonista deve rappresentare solo l’ “illusione” di una vittoria o di una possibile alternativa, ma non deve essere affatto un’alternativa reale, concreta, da mettere in pratica.

Così da una parte il soggetto viene tranquillizzato perché sa che l’alternativa sarebbe possibile. Ma dall’altra questo messaggio lo ricaccia nella sua impotenza e depressione: non è Tom Cruise, non è la Ferragni e non è qualsiasi altro personaggio ideale. Il “male” è concreto, appartiene a tutti, è sotto gli occhi di chiunque, mentre il “bene” può essere solo un ideale incarnato da qualcuno, un “mito” costruito a tavolino dagli uffici marketing.

Desistere dal combattere per un mondo migliore

L’ideologia del capitalismo deve trasmettere questa idea: che la lotta tra soggetti umani e “mondo” sia impari, affinché l’umanità desista dall’intraprenderla realmente. La può solo osservare e si può consolare del fatto che qualcuno qualche volta possa combattere il male nel nome dell’umanità stessa (Tom Cruise), o possa raggiungere quel successo ce tutti potrebbero ottenere (Ferragni). L’importante è che l’umanità non muova un dito per cambiare la propria esistenza. La filosofia dell’eroe, del predestinato, dell’eletto, dell’influencer, si riduce essenzialmente a questo. I nomi cambiano, la sostanza no.

La cultura deve consolare, non deve stimolare l’azione

A suo tempo Elio Vittorini aveva messo in luce proprio la funzione consolatrice della cultura (cioè dell’ideologia capitalista):

I suoi princìpi [della cultura] sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, vi­venti con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che “‘Sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scon­giuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura. (6)

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Questa funzione consolatrice deriva propria dalla natura della cultura, di non essere indipendente, di essere prodotta e venduta dalle classi dominanti. È quindi ovvio che la “cultura” non potrà mai superare i limiti imposti dal suo stesso creatore. Perciò non sarà una rivoluzione culturale a salvare l’umanità, ma una rivoluzione materiale. Per questo  la “cultura di massa” relega nel regno dell’illusione ogni cambiamento. 

Ken Loach, parlando della cultura di massa nel cinema, si riferiva allo “stereotipo dell’uomo con la pistola che risolve ogni situazione.” (Cito a memoria).

Ecco, l’importante è che “l’uomo con la pistola” sia uno, al massimo un gruppo, una squadra, non certo un’umanità intera sofferente e armata che prende in mano il proprio destino!

Il ruolo degli “influencer” nella cultura di massa

Se questa analisi è comprensibile, possiamo anche capire quale ruolo abbiano, nella cultura di massa odierna (cioè nell’ideologia capitalista), le decine di migliaia di “influencer”, “instagrammer”, “youtuber”, di tutti i paesi del mondo. Essi insieme ad altre figure anche occasionali, hanno il compito di compensare la barbarie di cui “trasudano le pagine dei giornali” (Baudelaire), presentando un’alternativa che deve essere imbevuta di buonismo, cioè di una finta etica che consoli la popolazione facendole vivere l’illusione di un possibile cambiamento che non deve mai avvenire nella realtà concreta.

Lo stereotipo buonista “ragazzina-nonna”

Torniamo all’esempio che ha avuto un’importante risonanza mediatica e social, di cui abbiamo parlato in apertura: l’influencer Chiara Ferragni ha accompagnato la Senatrice Liliana Segre al Memoriale della Shoah, sotto la Stazione Centrale di Milano. Da un lato abbiamo la “brava ragazza” ben disposta con i suoi “buoni propositi” e dall’altro, una “nonna” affettuosa e paziente. Quello che viene messo in campo è uno stereotipo relazionale che azione potenti meccanismi buonisti e di identificazione di cui hanno beneficiato tutti: gli influencer, il pubblico e le aziende del business mediatico.

Non solo, questa relazione fra le due figure rappresenta un vero e proprio microcosmo narrativo. Infatti al suo interno c’è tutto: sentimenti, tragedia, storia, drammi, generazioni, culture e mondi differenti, lavori e ruoli diversi che si incontrano in un istante “intenso”. Perciò questo incontro è il simbolo di una storia che a sua volta promuove una sorta di comunità che ci fa tutti sentire migliori senza aver ovviamente cambiato nulla, perché si fonda su uno schema buonista.

L’illusione della comunità

Tutti chi? Non solo il popolo di follower dell’influencer, ma una massa molto più estesa che si riconosce nei valori di questo evento, nei sentimenti che sprigiona e quindi “percepisce” di far parte di una comunità anche se questa comunità non esiste realmente (mentre esiste, nel caso dell’evento in questione, la comunità di coloro che purtroppo hanno sofferto realmente per questa tragedia).

Il cerchio si allarga molto al di là dell’insieme dei follower perché i meccanismi di identificazione di massa operano proprio a livello di massa e non per cerchie circoscritte. Il tornaconto mediatico ed economico di una storia di questo genere per l’influencer è straordinario e investe molti attori e organizzazioni perché si riflette potenzialmente su tutto il pubblico e non solo su un target determinato. Il binomio giovane-ragazza-ingenua-dai-buoni-sentimenti con senatrice-nonna-molto-affettiva-che-ha-vissuto-tragedie-umane-storiche può essere considerata una sorta di sceneggiatura di successo.

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L’illusione di appartenere alla community giusta

Il pubblico continua a vivere il proprio ruolo frammentato di singolo consumatore che deve spendere il proprio salario. Però partecipa all’illusione di poter appartenere a un mondo migliore grazie alla comunità di un influencer e “leader” che in questo episodio (in altri potrebbe invece fare più comodo mettere in scena provocazioni “amorali”), coincide con la comunità mondiale dei “migliori”. 

Così lo storytelling si aggancia a quella parte dell’uomo che cerca di elevarsi (Baudelaire). Ma lo fa per interposta persona (il modello).

La comunità di quelli-che-hanno-la-coscienza-a-posto è il vecchio schema Disney – Barilla che non muore mai, perché nasce dalla necessità di distinguersi dell’umanità perversa (Baudelaire). La narrazione buonista di chi “fa la cosa giusta”, è un tipo di storia inseparabile da una percezione di comunità, proprio perché la sua forza consiste dall’entrare nel lato buono del mondo.

Il mito di Cappuccetto Rosso

Detto in altri termini: il successo mediatico di questa operazione, è che tutti si possono sentire, contemporaneamente e senza limiti di età e di sesso, “ragazzine pulite”.

Non so se lo staff della Ferragni sia partito proprio da questa favola. Se abbia spudoratamente considerato la Segre alla stregua della vecchietta di Cappuccetto Rosso e abbia pensato che il volto apparentemente ingenuo e “semplice” dell’influencer si potesse trasformare in quello innocente di Cappuccetto rosso. Quello che so è che spesso, negli ambienti pubblicitari, si ragiona proprio così: “Quale modello prendiamo?” “ Ehi raga, vi rendete conto che abbiamo in mano lo stereotipo perfetto?” E così via. Il cinismo in questo campo non ha davvero limiti.

È facile per la massa entrare in questi meccanismi senza capire come sono combinati, proprio perché si agganciano a degli archetipi in qualche modo interiorizzati. Come nella “Lettera rubata” di Poe (tradotta da Baudelaire): la nascondi meglio se ce l’hai sotto il naso.

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La differenza fra eroe classico e influencer

In questo senso è molto diverso il ruolo giocato da un influencer, rispetto a quello dell’eroe classico che risolve la situazione per conto proprio (Ken Loach), giocato dagli attori di un film o dai protagonisti di un romanzo.

Lì l’eroe è “uno” (o un gruppo, una squadra), mentre gli spettatori di un evento buonista di tipo social-mediatico si sentono parte di una comunità di massa. 

L’archetipo di Cappuccetto Rosso ragazzina – nonna per il mondo dei “buoni” ha una valenza diversa e superiore rispetto all’identificazione individuale con l’eroe letterario o cinematografico che salva il pianeta. Nel primo caso si mette in piedi una storia per farti appartenere a un mondo, a una vera e propria comunità, nel secondo la storia è creata affinché tu possa sognare di poter essere quell’eroe che salva il mondo.

Dunque, che cosa contraddistingue lo storytelling della cultura di massa, dell’ideologia capitalista, all’epoca dei social network, dalla vecchia cultura dell’epoca di Baudelaire (ancora viva e presente), che era limitata alla stampa?

Be’ una delle caratteristiche è proprio la creazione di una fittizia community di buonisti-con-la-coscienza-a-posto. Una comunità illusoria attorno a un’influencer che possa rispecchiare, pur nel quadro del suo commercio e business quotidiano (ricordiamoci l’uomo che “piglia al laccio il suo gonzo sul Boulevard”), la parte di quella “natura umana” che si vorrebbe “elevare”.

Le caratteristiche di cui lo story-marketing oggi deve tenere conto

In base a ciò che abbiamo detto, qualsiasi operazione di marketing sociale di successo, che nasca e si sviluppi nel contesto sociale – mediatico, deve tenere conto delle caratteristiche di fondo dell’ideologia:

  • Rappresentare la natura barbarica (”satanica”) del mondo, come se questa contraddistinguesse la stessa natura umana (Baudelaire).
  • Mettere in scena la parte che si vuole elevare attraverso uno schema tipicamente buonista.
  • Creare l’illusione di una comunità attorno a un leader (influencer, creatore, personaggio mediatico…), che non sia più l’eroe solitario dello schermo, ma l’illusorio rappresentante di una community intera, che parla in suo nome e interloquisce realmente con i soggetti che la compongono.
  • Creare l’illusione di distinguersi dalla parte negativa dell’essere umano (cioè della comunità stessa, dei suoi stessi soggetti), in alcune occasioni (ma senza esagerare, perché che la comunicazione di massa è già piena di “orrori”).

Concludiamo questa analisi portando alla luce un “danno collaterale” di questo meccanismo.

Baudelaire e la “puttana Villedieu”

Lasciamo ancora la parola a Baudelaire, che aveva espresso due secoli fa questo concetto meglio di quanto possa fare io oggi:

Tutti gli imbecilli della borghesia che pronunciano senza sosta le parole “immorale, immoralità, moralità nell’arte” e altre idiozie, mi fanno pensare a Louise Villedieu, puttana da cinque franchi, che accompagnandomi una volta al Louvre, dove non era mai stata, si mise ad arrossire, a coprirsi il volto. E tirandomi a ogni momento per la manica, mi chiedeva, davanti alle statue e ai quadri immortali, come si potesse pubblicamente far mostra di simili indecenze.

Interessante, vero? Non è questa la sede per analizzare il meccanismo dello scandalo. Ma diciamo che è semplice nella sua struttura, lo esprimo in questo modo:

Se trovi qualcuno o qualcosa che possa scandalizzare al posto tuo è meglio che essere tu stesso lo scandalo.

e questo rappresenta perfettamente il sistema capitalista odierno.

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L’ideologia dominante deve restare tale, non può essere oggetto di scandalo. Al suo interno possono però esserci tutti gli scandali che si vuole. Questi saranno trattate come schegge impazzite o situazioni che sfuggono al suo controllo, oppure come la conferma dell’esistenza della “perversione umana”. Per l’ideologia è un bene che esitano questi orrori, perchè sono subito additati come deviazioni da esecrare, sono l’espressione della parte satanica che esiste in ciascuno.  

In questo testo abbiamo dunque esaminato un semplice e diffuso meccanismo con cui l’ideologia dominante, che è semplicemente quella del capitalismo, “parla” al pubblico. Meccanismi che occorre conoscere se vuoi intraprendere il mestiere di storyteller, se non altro per proporre linee narrative differenti.

Se invece giustamente vuoi abbattere questo sistema di cose, come auspicava Baudelaire, non ci sono storytelling e “comunicazioni” che possano sostituire l’azione materiale di cambiare la società, questo sistema capitalista da cui tutto il marciume deriva.

Vendere storie, non significa cambiare il mondo.

Note

  1.  Io Donna, 18 maggio 2022: https://www.iodonna.it/personaggi/star-italiane/2022/05/18/liliana-segre-chiara-ferragni-memoriale-shoah/ 
  2. Corriere della Sere https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/22_giugno_27/liliana-segre-chiara-ferragni-insieme-memoriale-shoah-eee2ff38-f611-11ec-8350-fcb93af951e7.shtml
  3. Carlo Rienzi, presidente Codacons, 21 maggio 2022. “Lei, Senatrice, sembra quasi dire: qualsiasi modo per richiamare ragazzi e giovani sul tema dell’Olocausto è lecito, meglio in “tanti”, a prescindere dalle ragioni per cui “vengono“, che “pochi“. Il rischio è evidente: confondere la quantità con la qualità, privilegiando la prima a danno della seconda, e dare per scontata una scelta che scontata non è affatto (anzi): va bene che diventino (forse) “tanti”, i ragazzi interessati all’Olocausto, ma quali “tanti“, e a che prezzo? (…) Per questa ragione torno a chiedere a Lei, Senatrice, alla Sua lucida onestà intellettuale, domando: davvero secondo Lei questo Regno del Nulla, questa ridda di esaltazioni della ricchezza, autocelebrazioni e atti diseducativi, rappresenta la sola speranza rimasta, per educare i nostri figli alle cose che contano della vita? Non crede anche Lei che, se così davvero fosse, dovremmo già fermarci a riflettere, e ammettere una cosa su tutte – e cioè che la nostra società è costruita in modo disequilibrato e diseducativo, propaga modelli distorti e sbagliati, ha qualcosa che non va di piuttosto evidente, e andrebbe in primo luogo trasformata, modificata, rivoluzionata?” (https://codacons.it/segre-e-ferragni-lettera-aperta-del-codacons-a-senatrice-e-comunita-ebraica/)
  4. “Non si può dire che Chiara Ferragni è il prodotto – non delle rivoluzioni culturali e dei costumi, non del femminismo e delle lotte delle nostre madri e nonne – ma di quel capitalismo rapace e annientatore che si regge sul consumismo (e che si lava la coscienza con la beneficenza). (…) Un mondo triste, senza empatia e solidarietà, greve e profondamente ingiusto, ma nascosto dietro lustrini e paillettes, e, poiché privo di Cultura, inevitabilmente pure senza senso critico. Un mondo dove esistono folle che acclamano una donna di 35 anni che ha la proprietà di linguaggio di una ragazzina di 13, che, pur essendo a capo di un impero, non è però in grado di parlare con sicurezza in pubblico per 8 minuti, di formulare frasi che prevedano anche qualche subordinata. Che mette in fila – più che dei concetti – una serie di meme e luoghi comuni…” (Sandra Figliuolo, Chiara Ferragni è solo l’orribile specchio del capitalismo, Today Sicilia, 10 febbraio 2023).
  5. Charles Baudelaire, Opere, a cura di Giovanni Raboni e Giuseppe Montesano, Mondadori, Milano, 1996 – 2006, pag. 1381
  6. Elio Vittorini, Il Politecnico n. 1, 29 settembre 1945.
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