Alberto Pian

Alberto Pian
Influencer Creator Influence Day Milano Your Storytelling Alberto Pian

INFLUENCER O CREATOR? PERSONAGGI E MARCHI DELLA “CREATOR ECONOMY”

Ho partecipato all’Influence Day a Milano il 10 novembre come storyteller delle prime gemelle virtuali italiane, Eli e Sofi @eli.sofi.twins , create dall’artista Elisa Nieli . Nel panel conclusivo dell’evento ho anche parlato delle chances che un influencer – creator  virtuale può offrire alle aziende. In questo articolo voglio rispondere a questa domanda: Perché la “Creator Economy” ha più bisogno di “Creatori di contenuti” che di “Influencer?”

Influence Day e Flu

L’Influence Day che si è svolto a Milano il 10 novembre è stato molto ben costruito e di successo. È stato organizzato da FLU, una unità dell’agenzia milanese Uniting, che ha proprio lo scopo di costruire relazioni ben precise fra influencer e aziende. L’evento ha riunito numerosi influencer reali e virtuali con i loro creator, team e alcuni brand interessati a capire come funziona la cosiddetta Creator Economy e quali opportunità può offrire. Ma prima di addentrarmi nei contenuti dell’articolo desidero fare i complimenti e ringraziare Chiara Dal Ben e Giancarlo Sampietro (CEO & Co-founder di FLU), che si sono spesi per realizzato l’Influence Day insieme allo staff di Flu, composto da persone entusiaste e molto competenti, che ho conosciuto con grandissimo piacere, fra le quali Ilaria Polo, che mi ha seguito in ogni dettaglio con grande professionalità e simpatia e Benedetta Tornesi di GRLS con cui ho avuto un colloquio – intervista estremamente stimolante.

La Creator Economy

“Creator Economy” è il termine adottato per indicare tutto ciò che ruota intorno al mondo di chi costruisce contenuti e li pubblica ottenendo o producendo dei guadagni attraverso i diversi canali sociali. Si tratta di una vera e propria economia che ha raggiunto i 300 milioni di € di fatturato in Italia e che permette ai Creatori e agli Influencer di mantenere rapporti con un vasto pubblico e con le aziende di riferimento.  Migliaia di persone lavorano in quella che viene considerata una nuova e rivoluzionaria forma di marketing e di produzione.

Forbes, nel luglio del 2022, valutava la Creator Economy in circa 100 miliardi di dollari, con 50 milioni di persone nel mondo che si considerano “creatori” (anche se molti sono improvvisati e dilettanti). La maggior parte di questi opera in YouTube e in seconda battuta in Instagram. Anche la piattaforma di streaming Twicht assume un certo rilievo.

Dunque si tratta di una realtà solida destinata – secondo tutti gli operatori – a crescere (la valutazione più comune è di circa l’8% annuo). Spesso si sente infatti dire che gli investimenti pubblicitari tendono a spostarsi dai media tradizionali a quelli sociali. Questi flussi non sono ancora macroscopici, ma certamente esistono.

Influencer o Creator?

Uno dei principali dibattiti all’interno della Creator Economy riguarda il modello di business assunto dal protagonista e ispiratore dell’esperienza: questo modello è improntato a essere un Influencer o un Creator? Come definire il soggetto al vertice della Creator Economy? Questa domanda è stata rivolta esplicitamente anche all’Influence Day ad alcuni Influencer ma, soprattutto, è stata la domanda implicita a cui tutti si sono sentiti in dovere di rispondere, anche se non era stata loro formulata esplicitamente.

Perché il tema se essere considerati Influencer o Creator è improvvisamente diventato centrale? Che cosa ha a che fare con la Creator Economy? Come cambia il modello di business a secondo di essere considerati Influencer o Creator?

Una prima risposta intelligente ci viene data dal New Yorker, la più autorevole rivista culturale mondiale.

L’Influencer è un personaggio della Commedia dell’Arte

Secondo il New Yorker, l’Influencer, fondamentalmente è:

“Un personaggio della commedia dell’arte di Internet che sta scomparendo. Spesso si tratta di una donna bianca convenzionalmente attraente, che mostra il suo stile di vita aspirazionale attraverso i canali dei social media. Si guadagna da vivere convincendo le aziende a sponsorizzare i contenuti della sua vita glamour.”

Dipinto 19e-eeuwse illustratie van de commedia dell’arte, Wikipedia CC

Dunque l’Influencer è diventato un cliché poco edificante. Del resto è giustamente per questo stesso motivo che i professionisti di FLU – il cui business è radicato nel mercato della Creator Economy da loro attentamente osservata – hanno chiamato l’evento Influence Day e non Influencer Day. Una questione sottile? Non proprio, è una questione di sostanza.

Un cliché che sta diventando pericoloso

Il New Yorker, infatti continua:

“Il cliché dell’influencer è emerso negli anni Venti da piattaforme multimediali come Instagram e Snapchat, dove l’obiettivo era di creare un’immagine il più possibile curata e raffinata. Gli influencer erano utenti dei social media come celebrità, con tutta la vanità e la mancanza di scopo (superficialità), che il paragone implica. Ormai le connotazioni dell’essere un influencer sono per lo più negative: selfie modificati, didascalie scialbe, finta relazionalità, foto in jet privato e sponsorizzazioni non segnalate.”

Per questo, prosegue il New Yorker, il termine Influencer oggi ha una connotazione negativa e troppo legata alla superficialità della promozione commerciale di una marca. All’Influnece Day una nota Influencer che ha vinto il premio nella sua categoria, ha detto

“Mia nonna dice che faccio telemarketing con Instagram”.

Questa concezione non appartiene solo a persone di una certa età, ma sta diventando una formula dominante: l’influencer è il veicolo marketing di una marca, punto.

Meglio “Creator”?

Ecco perché il termine “Creator” è preferito da molti Influencer e perciò sta scalando la vetta degli appellativi nello scenario della Creator Economy.

Il New Yorker dice:

"Di conseguenza, le piattaforme dei social media stanno adottando una nuova parola d'ordine come alternativa: "creatore"."

La scelta di orientarsi verso il lato “creativo”, abbandonando quello di “influenzatore” è determinata da due aspetti.

Il primo è che la nuova generazione di Influencer si percepisce come portatrice di contenuti originali che vengono espressi a modo proprio, secondo uno stile riconoscibile.

Il secondo, che probabilmente sarà quello determinante, è che il pubblico non fa distinzioni tra prodotti da piazzare sul mercato e il soggetto strumento di questa “televendita”. In fondo, agli occhi di molti, l’Influencer fa pubblicità, tutto qui. Sarà anche una pubblicità un po’ più attraente rispetto a quella tradizionale, ma è pur sempre un’operazione di marketing e quindi destinata ad avere una vita limitata.

Al contrario, il personaggio desidera vivere più a lungo del prodotto che reclamizza. Questo è ovvio: non può certo morire con il suo articolo. Anche la Creator Economy condivide la stessa visione: non può dissolversi con il prodotto o con la marca.

Però le relazioni fra Influencer e il brand che rappresenta non sono così semplici da modificare o da reimpostare a vantaggio della sopravvivenza del personaggio.

La competizione fra Influencer e Marca

Un influencer ha una sua community composta da una certa quantità di follower. A questi follower propone dei contenuti e dei valori grazie ai quali viene seguito.

Dal canto suo una data azienda cerca un Influencer che possa esprimere al meglio un certo prodotto, oppure lo stesso marchio aziendale. Per farlo valuterà i contenuti, il modo e i valori che diversi Influencer propongono per poter scegliere quello più adatto. Deve quindi esserci una corrispondenza di valori o di amorosi sensi fra Influencer e Marca, affinché il rapporto funzioni con i rispettivi follower e clienti.

Trovata questa giusta relazione si stipula un accordo grazie al quale l’Influencer riceverà una retribuzione per inserire determinati articoli all’interno dei propri contenuti. Il patto implicito (a volte esplicito), è che la corrispondenza di valori fra personaggio e marca venga mantenuta. Infatti è proprio questa corrispondenza a generare significato per le rispettive community.

Tuttavia questo patto è fragile perché si fonda su un conflitto naturale: il marchio vuole vendere o farsi conoscere mentre il personaggio vuole preservare la propria reputazione per poter conservare la propria community di follower.

Qualità Vs Quantità

Questo conflitto viene “regolato”, per modo di dire, attraverso dei business plan che propongono di quantificare i risultati di questo accordo. Questi risultati vengono misurati in KPI (Key Performance Indicator) che servono per stabilire fino a che punto l’azienda abbia raggiunto i suoi obiettivi attraverso l’opera dell’Influencer. Detto in altri termini: si valuta in modo quantitativo una prestazione qualitativa. L’Influencer gioca sulla qualità, l’azienda sulla quantità (nel Panel in cui ho parlato ho cercato di rispondere a questa questione).

Dunque il conflitto è tra qualità di un contenuto e quantità dei risultati.

Siccome questo rapporto fra qualità e quantità non è deterministico ci sono dei problemi a misurare quantitativamente un’azione qualitativa. Infatti, al di là di tutti i metodi statistici e le formule che nel tempo sono stati escogitati, non esiste una ricetta univoca e neppure uniformità di vedute tra i tecnici che impostano gli algoritmi per ricavare i KPI.

Questa è la base del conflitto fra Influencer e azienda. Più l’Influencer soggiace a valutazioni quantitative e più perde la sua autonomia, la qualità viene rimessa in causa, la reputazione scricchiola e il personaggio tende a diventare uno strumento del marketing aziendale.

La reputazione

Quando l’azienda non è necessariamente interessata alla vendita di un dato articolo, ma vuole mantenere o allargare la propria reputazione presso un determinato pubblico, allora presta meno attenzione alle “conversioni” (cioè alla trasformazione di un messaggio pubblicitario in articoli venduti). In questo caso è più interessata al gradimento del pubblico rispetto al marchio, cioè alla propria “reputazione“.

Non è quindi detto che lo scopo sia che il pubblico acquisti il rossetto XY perché il personaggio ne ha parlato. Potrebbe essere sufficiente ricordare che un certo marchio produce un certo rossetto. Allo stesso modo non è detto che tutti debbano precipitarsi in Mongolia perché il proprio beniamino ha mostrato una serie di reel strepitosi su quel paese. Portare persone nell’agenzia viaggi YZ e non turisti in Mongolia, potrebbe essere il reale scopo.

In questi casi tra Influencer e marca avviene un contatto più “equo” che si gioca sul terreno della reciproca reputazione. Io vado in Mongolia e tiro fuori dei contenuti incredibili e tu sei con me nel viaggio, ne condividi i valori e così la gente dice: che bel marchio o che bei prodotti, o che bell’agenzia viaggi. Il rapporto fra qualità e quantità è più equilibrato.

Capite che alla fine in ballo c’è sempre la reputazione dell’uno e dell’altro.

Per l’Influencer “reputazione” significa poter continuare a lavorare incrementando la propria community di fedeli seguaci. Per il Marchio significa evitare l’oblio per continuare a vendere prodotti.

Verso una linea di tendenza

Spero che abbiate potuto capire che alla base di tutto c’è il modo in cui l’Influencer e la Marca costruiscono le storie. Quale grado di autonomia è consentito allo storytelling? Quale profondità e spessore può toccare la narrazione in relazione al prodotto e al marchio? Lo storytelling sarà percepito come una libera creazione del personaggio o come un ditkat del marchio?

Tutta la questione si riduce dunque a un solo punto essenziale: in che modo l’Influencer racconta le sue storie? In che modo la marca vorrebbe proporsi? Tutto dipende dal modo con il quale il prodotto è rappresentato dall’Influencer e il suo storytelling è vincente.

Perciò ci dobbiamo chiedere questo:

Come avviene l’inserimento dell’articolo nelle storie dell’Inflluencer?

Questa rappresentazione dell’articolo può essere di due tipi: esplicita implicita.

Esplicita è quando tutta la storia verte sull’oggetto da reclamizzare (esempio del rossetto XY).

Implicita è quando l’Influencer sta compiendo un’azione nella quale l’oggetto è presente senza essere necessariamente il protagonista (esempio il viaggio in Mongolia)

Alla lunga nel primo caso il brand dovrà cambiare cavallo per rinnovarsi e l’Influencer dovrà diversificare i prodotti e i marchi per non fare la fine del cavallo senza scuderia. Nel secondo caso si possono rinnovare i contenuti e diversificare i marchi, i prodotti e perfino i modelli dello storytelling, mantenendo un rapporto vivo (se si è capaci ovviamente di mantenerlo – PS: questo è il mio lavoro: contattatemi!).

L’Influencer vuole essere considerato un Creator

La differenza fondamentale fra i due casi è che nel secondo l’Influencer ha molti più margini di manovra sul format della sua esperienza. Egli è più Creator che Influencer, più Artista che Artigiano e quindi la su attività si può concentrare sui contenuti, sullo storytelling.

Illustrazione di Eduardo Meliá, VIETNAMESE GIRL Creative Common.

Questo è il cuore di una delle questioni più importanti e decisive di questo rapporto, il vero “fantasma” che aleggia fra tutti gli attori: brand, influencer, creator, follower, stackholder, clienti, haters… proprio tutti : la questione della libertà dell’Influencer rispetto al marchio e del rapporto trasparente che deve continuare a sviluppare verso il proprio pubblico di seguaci.

Ovviamente tutti gli Influencer propendono per la versione creativa del loro lavoro (anche se a mio parare solo una minuscola parte di loro ne possiede davvero i requisiti). Per questo Creator sembra oggi essere il termine da loro preferito, o in altri casi quello di “Imprenditore“.

A questo punto ci dobbiamo chiedere: quanta creatività e indipendenza c’è davvero nel loro lavoro? In che modo potrebbe crescere e svilupparsi? Che legame esiste fra creatività, reputazione e valori sociali di cui molti sono (o semplicemente si dicono) portatori?

Interessante? Certo, ma… questo è un altro tema, che affronteremo in un nuovo articolo!


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