Alberto Pian

Alberto Pian

OMAGGIO A KEN LOACH, “TROPPO SCHEMATICO” SECONDO LA CRITICA

La “critica” cinematografica è stracolma di “pensiero unico”. È un dato di fatto, ed è il motivo per cui non la leggo.

Pensate che quando un film comunica un messaggio assolutamente controcorrente e rivoluzionario, viene tralasciato perché… la sceneggiatura, gli attori, la colonna sonora, ecc. ecc. E sembra (da quel che ho letto), che sia proprio questa critica omologata ad aver disprezzato l’ultimo film di Ken Loach, The Old Oak, 2023 accusato, fra le altre cose, di essere troppo schematico (proprio così). Pensate un po’.

Ken Loach, The Old Oak, 2023 è un film “schematico”, bocciato!

Sentite questa: il film sarebbe schematico perché c’è un tizio che, contrariamente agli altri protagonisti, mette il suo Pub a disposizione di profughi siriani. Non si scaglia come tutti contro di loro, ma pensa che ci si debba unire, proprio unire, per fare fronte comune contro l’ingiustizia del capitale, che sfrutta, opprime divide, mette la povera gente gli uni contro gli altri.

Caspita, che schematismo! Infatti questo difficilmente capita nella vita reale. Ma se capitasse? Se invece di dividersi gli oppressi si unissero in un fronte comune, come diceva Marx (I proletari hanno dalla loro parte il numero. Proletari di tutti i paesi unitevi!). No, è troppo schematico, non può capitare, è al di fuori dalla realtà. La realtà è fatta di divisione e di violenza, degli uni contro gli altri.

Di quanti messaggi rivoluzionari siete venuti a conoscenza, nella cultura di massa?

Quante volte, nella sterminata produzione cinematografica (e letteraria), avete mai trovato messaggi così chiari e rivoluzionari? Raramente. Perfino un film come Welcome, Philippe Lioret, 2009, che era stato giudicato superlativo perché metteva in luce problemi drammatici di esistenza e migrazione, in realtà era un film assolutamente rivoltante, squallidamente senza speranza, completamente disfattista che diceva chiaramente: tu devi morire, non c’è salvezza per te, immigrato, disadattato, povero.

Questi sono i messaggi che fanno impazzire le classi dominanti e i loro lacchè “critici” cinematografici!

Il messaggio dominante deve essere sempre disfattista, individualista o nichilista

Fra le centinaia di film che vedo ogni anno di tutti i paesi e di tutti i generi, il messaggio dominante è uno di questi:

1. Per far fronte alla vita devi essere un perfetto scemo che ride tutto il tempo e fa l’idiota.
2. Per far fronte alla vita devi essere un eroe, o un cinico.
3. Per far fronte alla vita, se sei uno normale non puoi, soccombi.

In sostanza i messaggi devono essere tutti senza speranza. E se c’è una speranza deve essere accettabile per questa società borghese, cioè deve essere una soluzione individualeindividualista o nel chiuso di una famiglia (base dello stato borghese, in varie forme Engles, ma rimessa in causa pure quella).

Perché?

Perché la cultura dominante è quella della società nella quale viviamo e questa società è una società basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sul pianeta, sulla distruzione di forze produttive, sulla distruzione in genere, sulle guerre, i traffici, le speculazioni, le banche, le occasioni di “fare business”. Diciamolo semplicemente: una società capitalista, basata sull’accumulo di capitale, non sulla soluzione dei problemi dell’umanità. Se la società nella quale viviamo è marcia, la sua classe dominante, che detiene i mezzi per fare e distribuire “cultura”, non può che trasmettere dei messaggi altrettanto marci. E cioè messaggi di divisione, di disillusione, di sconfitta, di distruzione. Oppure, vuoi proprio ribellarti, e allora eccoti dei messaggi nichilisti, proprio per dare in pasto alle masse una “prospettiva” (altrettanto distruttiva).

E se il messaggio aprisse una prospettiva?

Se invece il messaggio è:

“comprendere i profughi siriani, unirsi a loro, comprendere che la causa di un proletario britannico o italiano, francese o greco è la stessa contro questa società (contro la quale in Francia le giovani generazioni si stanno rivoltando disperatamente).

allora diventa un messaggio pericoloso che deve essere stroncato. Ed è così che la critica lo stronca.

Perché i critici, che sono uomini e donne come noi, stroncano questo messaggio?

Perchè sono retribuiti dalle testate governate, dirette e finanziate proprio da quella classe sociale che governa e possiede anche i mezzi per produrre e diffondere “cultura” (cultura borghese, capitalista, cioè distruttiva).

Non ho ancora visto il film e, certo, potrebbe essere fatto malissimo. Perché no? Ma perché, se quello di una unione fraterna fra oppressi, è il messaggio rivoluzionario del film, ignorarlo? Guardate quanti bei prodotti veicolano messaggi agghiaccianti, individualisti, narcisisti, di distruzione e privi di speranza! Li giudicate dei buoni prodotti?

Si, la critica fa così. Se ne frega del messaggio, specialmente quando il messaggio è rivoluzionario.

In onore di Ken Loach

Comunque, giustamente, non parlo di un film che non ho visto. Ma, in onore di Ken Loach, pubblico qui un pezzo che fa parte del libro Visto in sala, lezioni di storytelling attraverso il cinema, 2016 – 2022, e che riguarda un film di Ken Loah, Il mio amico Eric. Anche questo film è basato su un messaggio rivoluzionario e, quindi, inaccettabile per i nostri fabbricanti e critici della cultura di massa per le masse.

Lo riporto integralmente qui sotto e per chi volesse acquistare un buon libro, credo che il mio non lo deluderà.

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Non un gol borghese, ma un passaggio proletario

Il mio amico Eric, Ken Loach, 2009

Una straordinaria lezione di etica sociale

Ho interrotto il mio lavoro sulla comunicazione “istituzionale” per vedere il film di Ken Loach Il mio amico Eric. Bene, se ne può ricavare un altro esempio concreto della dialettica che intercorre fra messaggio istituzionale e non istituzionale o, se preferite, fra stereotipo, canone e innovazione. Si tratta di questo.  A un certo punto due autobus di tifosi del Manchester si fermano davanti a una villa, i tifosi scendono, aprono i bagagliai e afferrano mazze e bastoni. Fino a questo punto siamo nel campo, stereotipato, di una tifoseria violenta che sembra intraprendere una delle sue solite azioni alle quali siamo purtroppo abituati. Invece, queste decine di tifosi, indossano la maschera del loro idolo Cantona, un ex giocatore del Machester, per intimidire (con una violenza benevola, assolutamente priva di forza bruta), il bullo – gangster – mafioso, che sta molestando una brava famiglia. Il bullo viene messo in ridicolo, affinché “perda la faccia” e uno dei protagonisti dichiara: “Lascia stare quella famiglia, non la farai franca, ti troveremo anche in capo al mondo perché noi non siamo persone qualsiasi. Noi siamo postini!”, con tutto l’orgoglio di un operaio fiero del proprio lavoro di fronte a un soggetto violento, antisociale e senza alcun ruolo produttivo. Contro i disvalori di questo soggetto e della sua banda, viene affermata tutta la forza di valori sani: lo svolgere una professione, per quanto modesta; il rifiuto della violenza, trasformata in parodia; l’esprimere un pieno senso di solidarietà collettiva e di comunione di gruppo.  Anche qui siamo di fronte a un rovesciamento che avviene sotto il segno dell’ironia. Che cosa ci si può aspettare da un gruppo di tifosi armati di mazze? E invece no, una situazione apparentemente stereotipata, istituzionale, codificata, è impiegata dal regista per veicolare dei valori, per denunciare esattamente quello che tutti si potrebbero attendere.

Perché avviene questo rovesciamento? Non per la messa a punto, da parte di qualche esperto, di  trucchi narrativi o comunicativi. Si tratta di una scelta di campo, di classe sociale, di valori. Cioè di contenuti.

L’eroe del film, che inizialmente ricalca i classici stereotipi dell’eroe borghese solitario, che porta il peso della vita sulle sue spalle, in lotta contro tutti (il solito cliché: quello del solitario cowboy western, dell’avvocato di Manhattan, dell’agente della CIA, del malinconico soggetto in crisi, ma comunque “solo” con la proprie ragioni), si trasforma perché scopre che questo modello borghese, nella realtà concreta, è un mito falso e perdente. Così esce da un mutismo e da una chiusura in se stesso, matrici tipiche dell’eroe piccolo – borghese, per parlare con gli amici (i suoi colleghi di lavoro). È con loro, rompendo la propria solitudine che scaturisce da un individualismo borghese, che trova la necessaria forza di reagire. È esattamente il contrario di quanto il cinema mondiale ci propone. L’uomo è forse una specie di Robinson che deve “farsi da sé”? La solitudine è una condizione specifica della natura umana e quindi il soggetto si deve arrangiare con se stesso? Niente affatto, ci dice Ken Loach: è la società borghese che ci spinge verso questi falsi miti. La vera forza e la vera alternativa si trovano nel collettivo, nella massa, nel popolo, innanzitutto nel proprio luogo di lavoro. È da lì che parte sempre tutto. Solo la working class è anche portatrice di un’alternativa, di una prospettiva diversa.

Ciò che conta, parafrasando Eric Cantona (che nel film appare come una sorta di amico immaginario del protagonista), non è il bel goal borghese, ma il giusto passaggio proletario.  E infatti tutto parte dai postini britannici. Proprio quando in Gran Bretagna le poste sono falcidiate da un piano di privatizzazioni* fondato sui principi del libero mercato e di un individualismo a questi perfettamente adeguato, il film mette i postini al centro dell’attenzione: non il mercato capitalista con i suoi disvalori spacciati per miti e i suoi falsi eroi solitari, ma una classe operaia fatta di uomini in carne e ossa, può esprimere i valori e le azioni con i quali sarà possibile cambiare il mondo.

Bello, indiscutibilmente, proprio una gran bella lezione!

 

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